“Ho letto che 28 rapper su 30 hanno dichiarato di essere stati influenzati dalle major discografiche per parlare di donne, droghe, vestiti e automobili”, diceva Vinnie Paz, uno degli esponenti di spicco della scena underground statunitense e nello specifico di Philadelphia, in un’intervista rilasciata agli spagnoli della Dos Rombos nel settembre 2012. “Non che non mi piacciano tutte queste cose, ma non sento il desiderio di perpetuarle. Ci sono argomenti più importanti come i pesanti sforzi economici negli U.S.A., in Europa, in Grecia. Mia madre viene ai miei spettacoli e voglio che sia orgogliosa”.
All’anagrafe Vincenzo Luvineri, chiare origini italiane, Vinnie Paz prende il nome dal pugile Vincenzo Pazienza, campione del mondo dei pesi leggeri e medio leggeri. Fondatore nei primi ’90 del gruppo Jedi Mind Tricks con Jus Allah e il produttore Stoupe e in seguito del collettivo hip hop Army of the Pharaohs (Aotp). Di più recente formazione il duo Heavy Metal Kings con il newyorkese Ill Bill, che ha portato alla luce nel 2011 l’omonimo album. Singolare caratteristica, Vinnie Paz è musulmano, Ill Bill è ebreo.
Cattolico di nascita, il distacco da questa confessione lo portò verso l’islam nel periodo scolastico. Il tema della religione è spesso presente nei testi di Vinnie Paz, spesso con risentimento verso le istituzioni del cristianesimo. Ma nella traccia “Dark of the night”, dell’album di Freddy Madball “Catholic guilt” – titolo che dice già molto – riconosce una sostanziale equivalenza dei culti monoteisti, in versi come “every religion has a God, but it’s the same one”, salvando il lato spirituale più che quello delle alte sfere ecclesiastiche, “religion’s a tool to divide us, and they won”. “La religione è uno strumento di divisione”, opinione che può risultare oggettivamente valida, arrivando a ribaltare l’etimologia della parola, “legame che unisce gli uomini nella comunità civile sotto le stesse leggi”.
“Does every muslim in the world come equipped with a bomb/ does every rap video has a chick in a thong?” (Ogni musulmano nel mondo arriva munito di bomba/ ogni video rap ha una ragazza in tanga?) è forse la frase, nella canzone “Suicide” del 2006, che meglio sintetizza il distacco del nostro dai classici stereotipi del rapper godereccio, magari esteticamente poco attraente ma circondato da belle donne. Poi ci sono i cliché rispettati, l’importanza della famiglia ed il legame con la madre – rapporto che spesso si regge sul cibo – la passione per la boxe, che fra gli italo-americani è forse anche più seguita del calcio, con una dinastia di campioni quali Rocky Marciano e Jake La Motta, reso ancor più celebre da Robert De Niro in “Toro scatenato”. Il video “Cheesesteak” racchiude tutto alla perfezione.
Italo-americani dunque, ma un momento, il rap non dovrebbe essere appannaggio esclusivo (o quasi) degli afro-americani? Per molto tempo lo è stato, al massimo si potevano trovare gli ispanici di Los Angeles con le loro lowrider. Lo stesso Vinnie Paz ricorda, nella traccia “Animal rap” con la leggenda Kool G Rap, “I’m from a time where every song was righteous/ before rap was just a swarm of white kids”, tradotto “vengo da un tempo in cui ogni canzone era virtuosa/ prima che il rap divenisse uno sciame di ragazzi bianchi”. Poi cosa è cambiato? Parte della trasformazione è indubbiamente dovuta ad Eminem, qualunque sia l’opinione su di lui, ha contribuito all’ascolto in massa da parte dei bianchi, prima in America, poi nel resto del mondo. Parlando di lui e del suo mentore Dr. Dre, precedentemente negli Nwa, Niggaz Wit Attitudes (dubbi sul suo gruppo etnico di appartenenza?), il verso “every black fan that I got was probably his/ in exchange for every white fan that he’s got” del brano “White America”, generalizza senza allontanarsi troppo dal vero.
Ma non è stato certo il primo caucasico a trovarsi a “sparare rime” al microfono, prima di lui, su tutti, i Beastie Boys. La differenza è che Eminem aveva testi assimilabili a quelli dei neri, non se ne distaccava come il trio newyorchese, attirando su di sé l’attenzione. E se nel mainstream continua una prevalenza afroamericana, da Drake, a Wiz Khalifa, nell’underground c’è molto più equilibrio etnico. Un esempio eccellente era l’etichetta Plr, Psycho-Logical Records, gestita dal fratello di Ill Bill, Necro. Prima che si riducesse all’osso, si potevano trovare Necro, appunto, bianco ed ebreo, Mr.Hyde, italiano, Q-Unique, italiano-portoricano e via discorrendo. Senza dimenticare, in giro per gli States, Diabolic, tedesco-irlandese, Lord Lhus, tedesco e tanti altri, da R.A. the Rugged Man a Sean Strange, dai Vendetta Kingz a parte degli Aotp già citati. Certo, poi da qui a dire che l’underground sia bianco ce ne passa.
Di sicuro non naviga nell’oro, anche letteralmente, data la quantità di gioielli e preziosi sfoggiata nei video che la tv trasmette, abbinata a champagne e limousine. Non necessariamente la povertà deve essere un valore da celebrare, come Rugged Man nel suo pezzo “Poor people”. Ma sempre per rimanere su mr. Thurburn, “you all turn pussies once you get that green”, come diceva in “Lessons”, cioè una volta che si vede il verde (dei dollari, ndr), si tende a divenire rammolliti, per usare un eufemismo. Di certo passa la fame -metaforica e non di cibo – che poi è il combustibile che alimenta la rabbia, la protesta, la voglia di cambiamento e di riscatto.
Dagli albori il rap è cambiato, molto spesso in peggio come accade quando un qualcosa di nicchia diventa troppo popolare. Se alla fine degli anni ’80 i Public Enemy cantavano “Fight the power”, brano poi utilizzato a ripetizione da Spike Lee in “Fa’ la cosa giusta”, ora uno dei più seguiti è Lil’Wayne, che propone titoli come “Love me” e “Lollipop”. Per carità, tutto legittimo, almeno finchè non ti autocelebri come nuovo 2Pac. Insomma, forse ha ragione Nas quando nel 2006 ha pubblicato l’album “Hip hop is dead”, o forse si può essere più ottimisti come The Game, quando replicò “Hip hop ain’t dead/ it just took a couple shots” (l’hip hop non è morto, ha solo preso un paio di colpi). O forse il vero hip hop si è rifugiato – nuovamente – nell’underground, dove si riesce a trovare ancora una certa carica di politicizzazione e tematiche sociali tese a migliorare il processo di vita nella comunità.
4 thoughts on “L’hip hop non è morto, si è rifugiato nel “sottosuolo””
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