Quando vai a vedere Antonio Rezza a teatro puoi aspettarti alcune costanti – nell’intrattenimento si tratta di un procedimento (solitamente) rassicurante, con lui non del tutto! Dinamicità inesauribile e uso totale del corpo per riempire il palco, nudo integrale (prima o poi), interazione molesta con la prima fila.
Ma, soprattutto, giochi con le parole, contrasti e opposti, piccoli aspetti della quotidianità elevati a ragionamento filosofico (e viceversa). In parte prevedibile, ma sempre così surreale, in grado di portare qualcosa di vero, sconcio, forte e irresistibile, che fa ridere e guardare alla vita col giusto stupore.
Fino al 22 gennaio al teatro Vascello di Roma è in scena Hybris, nuovo spettacolo scritto da Antonio Rezza e Flavia Mastrella, sodale artistica da ormai quasi 40 anni.
I due lati della porta
La porta è il confine tra dentro e fuori, ma se la porta viene retta e spostata da Rezza sul palco (senza fiatone, con l’energia di un ragazzino), tutto è relativo e si rimette in discussione. “Gustatela!”, non chiedere subito “chi è?” a chi sta bussando, che già è tanto se qualcuno viene a trovarti. “Non sei un poliziotto”, apostrofa con il suo caratteraccio ogni… character (personaggio).
Dentro e fuori, come tutti gli opposti, sono concetti che hanno senso solo se in relazione con l’altro. E la “veranda” rappresenta il compromesso.
Rapporti umani e familiari
La famiglia, come le porte, può essere interpretata come una demarcazione più o meno rigida ed esclusiva.
Anche temi non certo inesplorati come i rapporti familiari e, più in genere, interpersonali possono essere trattati in maniera diversa. Nel caso di Rezza attingendo alla sua naturale assurdità – in senso buono.
Scomodità e libertà artistica
Rezza non considera l’idea di un limite, finché si parla di arte e creatività. Riesce a far ridere (se si gradisce il meccanismo, ovviamente), anche infilando nel discorso terremoti, violenza domestica, eutanasia o necrofilia. Mette in chiaro il contesto polemico e satirico a servizio dell’ossessione umoristica, dimostrando che la libertà di espressione, nelle giuste modalità e negli spazi appropriati, non è realmente sotto attacco.
Si esce quasi rintronati, investiti, dalla voce modulata come un didgeridoo all’inizio alle blasfemie camuffate dal fischietto in chiusura – finché, come un arbitro, decreta la fine col proverbiale triplice fischio.
Tutto è suono, tutto è corpo, tutto è disturbo, anche se solo pochi sanno renderlo. La scomodità è un elemento fondante dell’opera di Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Lo spettatore non deve essere completamente a proprio agio, altrimenti l’arte non può arrivare con la stessa efficacia, o forse cessa del tutto di essere arte. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di muoversi da casa, lasciando che il “dentro” resti dentro.
Gabriele Santoro e Alice Rinaldi