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Perché ci sentiamo in obbligo di giustificare il violento?

“Un giudice donna”, “un poliziotto donna”, “un presidente donna”. Donna, donna, donna. Vicino a ogni “nuova” professione. Oppure interi testi lunghi pagine (!) scritti con la schwa perché si vuole dimostrare di essere inclusivi. Perché invece la gente non vede che così si fa solo peggio e che sarebbe tanto più semplice modificare l’uso della lingua secondo regole (maschili/femminili) che già possiede? Perché “oggi” ci sono anche i fluidi? I fluidi, se veramente tali sono, non avranno certo problemi a scorrere tra i generi, come meglio credono… ma se è vero che il problema fondante della violenza sulle donne è un problema di disuguaglianza di genere, la sua risoluzione passa anche dal linguaggio, e dallo smettere di mettere in ballo (ridicole) giustificazioni personali...

Talvolta è assurdo vedere come anche chi abbia una certa sensibilità alle tematiche di genere, se ne esca fuori con definizioni del genere: tentativo lodevole, risultato pessimo. Esiste una sola regola per capire se si sta attuando una discriminazione nei confronti di una qualche categoria. Ed è chiedersi se al contrario la formula sia mai esistita. “Un giudice uomo”: mai sentito. Allora perché quando si tratta di donne la cosa va sottolineata a tutti i costi? Per far notare il cambiamento. Benissimo. Ma allora fermatevi un attimo a pensare. Non basterebbe semplicemente dire: “UNA giudice” per far capire di chi si sta parlando, senza sottolineare in continuazione che è una vera rarità ricoprire certi ruoli rispetto agli uomini? In Italiano, prima che tutto questo “perbenismo linguistico” iniziasse, esistevano già i generi e gli articoli per stabilire le differenze. Perdersi in crociate politicamente corrette come interi testi scritti in schwa che risultano anche difficili da leggere perché grammaticalmente scorretti nelle concordanze, è solo una grandissima perdita di tempo che non risolve nemmeno la situazione. Anzi, la magnifica.

Ma partiamo dall’inizio. Problema di fondo: disuguaglianza di genere -> Risultato di fondo: violenza di genere -> Azioni possibili: il cambiamento che passa attraverso la cultura (famiglie, scuola, media, arte) e quindi anche attraverso la lingua. Tradotto in altro modo la disuguaglianza deve trasformarsi in uguaglianza. Ma l’obiettivo sembra ancora lontano. E mentre i media sono lo strumento principale (perché più pervasivo) per diffondere questa “nuova” cultura (in realtà antica e originaria!), e talvolta ci prendono, nella maggior parte dei casi non ci azzeccano per niente o addirittura fanno peggio…

Nel 2011, 45 Paesi nel mondo più l’Unione Europea hanno sottoscritto la Convenzione di Istanbul sulla “prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. Il problema che (finalmente) si avvertiva era talmente grande, grave e legato alla società e la sua cultura, che si è ritenuto necessario dedicare un intero articolo al ruolo dei media. L’articolo 17.

Fermare la violenza con le donne - Foto stock royalty-free di Violenza
E poi tutte quelle foto d’archivio insopportabili, sempre le stesse, a corredare gli articoli: “posizione di difesa, occhi tumefatti, braccia che nascondono il viso… ma è lei che si deve vergognare? Per lui invece, di solito, c’è al massimo un riferimento a qualche abuso di droghe”, sottolinea Silvia Garambois, presidente di GiuLia (Giornaliste Unite Libere e Autonome), associazione da sempre attiva nel monitoraggio dei media in questo senso

Se da una parte la Convenzione ha riconosciuto, per la prima volta, l’inequivocabile fatto che “le donne sono più esposte alla violenza di genere”, dall’altro ne ha stabilito la condanna e anche la risoluzione: l’uguaglianza. Questo elemento culturale, infatti, è fondamentale, nonostante venga quasi messo in secondo piano. E, in questo senso, i media rivestono il compito più specifico e attivo, per un’informazione corretta e consapevole, che ha le sue implicazioni. Sia se usato bene, sia se usato male. Il diritto di cronaca, tramite morbose descrizioni, sensazionalismo e stereotipi, non solo si trasforma in un nuovo abuso sulle vittime, ma non aiuta affatto il cambiamento.

Il Consiglio d’Europa però lo dice chiaramente, attribuendo un “potere” ben specifico ai mezzi d’informazione: “il potere di contribuire al contrasto e alla prevenzione della violenza contro le donne, promuovendone un’immagine bilanciata e non stereotipata”. E poi gli stereotipi non sarebbero un argomento fondamentale, se non l’argomento fondamentale in tutte le questioni umane, tale da meritare un intero giornale?

(Tra parentesi questo materiale è stato preso da un corso di aggiornamento di deontologia giornalistica. Tra le domande del test si chiedeva anche cosa fosse uno stereotipo. I nostri lettori non avranno problemi ormai a rispondere: “un’opinione precostituita che prescinde dalla valutazione degli eventi”).

5 settembre 1981: il delitto d'onore e il matrimonio riparatore vengono  aboliti | by Salvatrice Ferraro | La Mosca Bianca | Medium

Considerando una popolazione globale composta di donne e uomini, più o meno divisi al 50%, secondo i risultati del Global Media Monitoring Project, dal 1995 al 2015, la visibilità delle donne nei media italiani, rispetto a quelli degli altri paesi europei, si posiziona con valori percentuali mediamente inferiori. Nell’anno più recente la percentuale di donne a cui è stata data visibilità (rispetto agli uomini) nei media tradizionali (radio, stampa, TV) di tutto il mondo non saliva oltre il 24%. Se invece si prendono in considerazione i “ruoli narrativi” proposti si sale leggermente sopra la media:

  • 38% opinioni popolari
  • 30% testimonianze
  • 26% protagoniste news

ma ecco che, guarda caso, si riscende sotto la media per il ruolo di “rappresentante di azienda” o il classico “parere dell’esperto” (ecco appunto). In ogni caso “la voce delle donne è poco presente”, anche nei Paesi considerati “più evoluti”, come quelli scandinavi, ma, nonostante evidenti miglioramenti, ancora nei media italiani “si riflette lo status quo esistente”.

La foto della coppia felice presa dai social: un altro stereotipo fotografico da articoli di femminicidio. Ma certo anche qui la Garambois si chiede “perché mostrare i momenti felici di una coppia, se si sta raccontando che lui l’ha uccisa?” Perché una foto così comune e familiare, se messa in un certo contesto, incute terrore insinuando che può succedere a tutti? No. Non può succedere a tutti. Se la coppia si fonda sull’uguaglianza non può succedere.

Ma che cosa si intende, oggi, per violenza nei confronti delle donne? Non si tratta di qualcosa di generico, è piuttosto ben specifico: “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere”. Sembra una banalità, ma se consideriamo che fino al 5 Agosto del 1981 esisteva il “matrimonio riparatore”, in seguito all’abrogazione di una norma fascista dal Codice Rocco, per cui se un uomo violentava una donna ma in seguito la sposava poteva evitare la pena, è addirittura fino al 1996 che lo stupro veniva considerato un reato contro il buon costume, diventando un crimine contro la persona solo con le nuove Norme contro la violenza sessuale.

Poi è arrivato il “femminicidio”. Termine che fu prima giornalistico, comparso per la prima volta nel 2012, e poi normativo (2013) a indicare “l’eliminazione fisica o l’annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale, in particolare da parte di persone legate sentimentalmente”. Qualche merito ogni tanto a questo giornalismo dobbiamo darlo, perché fu esso a mostrare per la prima volta che quelli non erano semplici omicidi. Ovvero: c’era sempre qualcosa di strettamente legato all’essere donna e suoi relativi ruoli stereotipati. E’ così che il tema del femminicidio si impose all’attenzione pubblica perché “il tipo di relazione fra vittima e assassino indica una particolarità dell’omicidio femminile”.

Qual è il primo grande problema dei media nel comunicare il femminicidio?

Le cornici interpretative della cronaca tipica di un femminicidio tipico tendono a collocare l’evento entro un quadro di amore malato e perdita di controllo”, dice Pina Lalli del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. Questo crea una sorta di “routinizzazione tendenziale della cronaca di episodi di femminicidio”. Il che è sia positivo che negativo, positivo perché perlomeno oggi se ne parla, negativo perché il modo spesso non è corretto: “la cronaca e il senso comune tendono a psicologizzare le motivazioni presunte interiori, mobilitando di rado gli indizi del problema sociale”.

Anche se c’è un aspetto interessante: oggi si tende di più ad ampliare la cornice perché, per esempio, ci si interroga su violenze e denunce precedenti. Il trattamento della notizia nel caso dei femminicidi quando include il tema dei maltrattamenti pregressi lo fa mostrando sia le responsabilità sia il collegamento con un problema sociale, sempre che sia in grado di evitare un’altra tendenza pericolosa: “colpevolizzare la vittima (quando si dice che non ha fatto abbastanza) o le istituzioni (che non hanno fatto il loro dovere)”.

È la famosa “rivittimizzazione” di cui oggi per fortuna si parla molto: quando di fatto sui media si colpevolizza la vittima per la violenza subita (per esempio riportando le presunte giustificazioni dell’aggressore: “era esasperante”).

Oggi almeno evitano il termine raptus, anche se alternative come ‘perdita di controllo’ lo evocano lo stesso”. E poi comunque rimangono tutti gli altri che non vanno bene… “la rabbia, la non accettazione, l’abbandono, quasi mai si evocano in modo esplicito le asimmetrie di genere. Si raccontano le vicende dal punto di vista individuale”. Inoltre andrebbe forse sottolineato che il raptus come movente di femminicidio non è nemmeno un’attenuante giuridica. Così come gli stati emotivi e passionali (come la gelosia), o le particolari condizioni del violento (per esempio l’ubriachezza). Lo dice chiaramente l’art. 90 del Codice penale: “Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.

Reeva steenkamp modella - dago fotogallery
Reeva Steemkamp. Tra tutte le sue foto esistenti, “è davvero accettabile usare una foto così erotica a corredo della notizia della sua morte?” Notare come ci si comporta al contrario: Gaspard Ulliel, morto proprio recentemente, era anche lui un modello oltre che un attore, ma nessuno, mi sembra, si è azzardato a mettere sue foto erotiche (ma nemmeno di suoi personaggi!) nelle notizie di questi giorni. Solo sobrie foto in primo piano, come si farebbe con chiunque, per suo rispetto. E il suo è “solo” un incidente, e non un efferato omicidio così come è stato riconosciuto per la Steemkamp. Ma è proprio lì che il media, e i nostri occhi, sguazzano…

E poi, dal punto di vista dei media, c’è femminicidio e femminicidio. Partendo dal presupposto della cosiddetta “agenda setting” (in sociologia) – che individua nella “cronaca giornalistica una funzione di agenda attribuendo valore-notizia a un evento”, che tradotto significa che non potremo mai sapere tutto (materialmente impossibile) ed è il loro (nostro) lavoro fare la selezione – ci sono “femminicidi ad alto profilo di notiziabilità e femminicidi poco notiziati”. Ma già che siano oggi notiziabili, così come improvvisamente lo sono diventate le tematiche ambientali, indica comunque “un nuovo tipo di visibilità del fenomeno”.

Qual è il punto? La morbosità di tutti noi. I media lo sanno e se ne approfittano perché vende di più. E funziona così da praticamente quando è nato il giornalismo. Forse non a caso, infatti, “la cronaca giornalistica sui femminicidi talora indugia sul feuilletton”, che era proprio quel genere ottocentesco sui primi quotidiani francesi, tra la fiction e il gossip. Ovviamente è da biasimare perché va contro l’etica stessa del giornalismo, e ha a che fare sempre e solo con l’obiettivo economico più che informativo, ma c’è anche un punto vero che riguarda una parte del settore. La crisi di molte testate. E se poi questo giornalismo non lo legge più nessuno? Anche questo settore, quello scritto, ovvero quello che si è sempre distinto nell’approfondimento piuttosto che nella caccia alla notizia, deve fare i conti con questo. E capire cosa sia meglio fare probabilmente non è facile neanche per loro.

I femminicidi più notiziati sono quelli che possibilmente coinvolgano “giovanissimi, crimini efferati o scabrosi”. Gli altri sono quelli all’opposto. Infatti tra i meno notiziati ci sono le cosiddette “tragedie della solitudine” ovvero quando un uomo anziano uccide la propria compagna. Tanto che spesso si esauriscono in un trafiletto rispetto a mesi di diretta TV riservati ad altre, tanto che alcuni stentano a inserirli nella violenza di genere. Eppure anche questi “includono un problema di genere” perché a leggere certi titoli ti viene il voltastomaco. E c’è poco da fare: “la società si aspetta, più dalle donne che non dagli uomini, un’attitudine alla cura”.

Quando un marito anziano uccide la moglie anziana, si parla sempre di “disperazione” e “solitudine”. Si titola: “Non poteva vederla soffrire”, “ho sopportato per 4 decenni”, “non ce la facevo più”. Come sottolinea Pina Lalli, “sembrano problemi individuali che non hanno a che fare con il femminicidio. Ma siamo sicuri? Prendiamo questa foto famosa: la moglie che imbocca il marito su una storia che esalta la forza del marito nell’affrontare la malattia. Ci sarebbe più da chiedersi: come mai due anziani vengono lasciati soli? Qui c’è un problema di welfare, e anche di genere. Perché il caregiving è ancora considerato solo per le donne”. O comunque tacitamente scontato e invisibile. Mentre quando è il marito a dover prendersi cura… semplicemente, non ce la fa più.

Un’altra novità recente riguarda le fonti. Oggi “includono anche ciò che è reperibile sui profili social delle persone coinvolte”. Anche questa può avere aspetti negativi (dipende sempre dal modo in cui si usano), ma sono anche positivi quando si tratta di dare finalmente voce alla vittima, di cui tutti si dispiacciono, lasciando però che di fatto l’attenzione cada solo sull’assassino e sue presunte ragioni.

In un quadro del genere, cosa si può fare?

Si può perdere tempo dietro la linguistica? Assolutamente sì. Perché anche la lingua cambia una cultura. E si è visto in questi anni. E “sindaca” no, e “ingegnera” no, e “medica” no, e “ministra” no… (il correttore stesso li indica come errori). Perché no? Sembrano forzati, sembrano sbagliati? O piuttosto c’è una resistenza più che evidente, e solo quando si tratta di “professioni apicali”? Come mai non c’è stata alcuna resistenza su operaia o infermiera o maestra? Nascondendoci addirittura dietro una presunta “neutralità” del maschile, quando in Italiano il neutro non è mai esistito, al contrario di altre lingue, come l’Inglese. In Italiano se le cose si scrivono al maschile le persone penseranno ai maschi, se al femminile le persone penseranno alle femmine. È solo l’ennesimo, fastidioso alibi: “ci nascondiamo dietro la lingua, quando in realtà l’italiano è molto chiaro”, sottolinea Monia Azzalini, ricercatrice presso l’Osservatorio di Pavia Media Research, dove si occupa di analisi dei media. L’Italiano permette tranquillamente di creare maschili e femminili a seconda delle necessità. La declinazione al femminile dei titoli istituzionali, politici o professionali, non è dunque solo un esercizio di stile, è veramente importante e va fatta e ripetuta in continuazione.

Change.org Italia on Twitter: "#Sebastiani ieri ha confessato l'omicidio di  Elisa Pomarelli e il Giornale titola “Il gigante buono e quell'amore non  corrisposto”. Sebastiani, scrive Cinzia, è un assassino, cos'ha di “buono”?
Il Giornale, anno 2019. Tra i titoli più “stridenti e offensivi”, a riguardo di un femminicidio, che sono mai potuti uscire. E ancora: “ho fatto una stupidaggine”, “era la mia ossessione”, “perché lei lo ha lasciato”, “non accettava la separazione”, “voleva lasciarmi alla vigilia di nozze”, “l’ho fatto per amore”, “mi ha portato all’esasperazione”, “infedele e da raddrizzare”, “è riuscita a distruggermi la vita”… perché sempre le (insensate) giustificazioni dell’assassino?

A livello di pratiche giornalistiche (a contrasto e prevenzione della violenza contro le donne), si può dar loro più voce? Certo, ma non a caso. Abbiamo visto che in certi settori le donne sono ascoltate (testimonianze, opinioni, oggi in parte anche la politica…), ma è sicuramente necessario dare più voce alle donne nei loro ruoli pubblici.

Se in un articolo si parla di prostituzione di bambine, è corretto definirle “baby-squillo”? Ovviamente no, è una definizione da adulti che abusa dei minori, una violazione deontologica (Carta di Treviso del 1990 a tutela dei minori) e non risponde nemmeno al “Manifesto di Venezia” del 2017, decalogo per “una scrittura rispettosa su vittime e sopravvissute” a partire dal linguaggio, proposto da Veneto, Commissione per le Pari Opportunità e GiuLia, e liberamente sottoscritto da giornaliste e giornalisti.

Purtroppo “40 anni sono pochissimi per cambiare le nostre attrezzature simboliche”, sottolinea la Lalli, “vedi l’ombra del delitto d’onore su tutti i femminicidi”, d’altra parte “scriveva Wittgenstein che i limiti del linguaggio significano i limiti del mondo, abbiamo dunque una visione del mondo limitata”, commenta la Azzolini. “Dobbiamo nominare tutto al femminile. Anche attraverso la lingua si possono fare cambiamenti e si notano differenze. Dobbiamo creare un nuovo immaginario collettivo di prevenzione”.

Un elenco stereotipato di titoli e parole quando si parla di femminicidio (Osservatorio GiuLia):

Stefania Noce, studentessa poco più che ventenne di Licodia Eubea, uccisa dall’ ex fidanzato in seguito alla sua decisione di interrompere il rapporto. “Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione”, scriveva in un articolo dal titolo:Ha ancora senso essere femministe?”  pubblicato su La Bussola, giornale dell’Università di Catania.

“Difficile trovare chi non si è fatto prendere dagli stereotipi. Non solo tra i giornalisti, e le giornaliste, ma anche tra le forze di polizia. La questura di Milano scrisse tra le ragioni dell’assassino: ‘convivenza forzata del lockdown’. Tutti veniamo dalla stessa cultura che ratificava per legge la minorità femminile. Nonostante dal ’48 siamo tutti uguali, dal ’70 c’è il divorzio e dal ’75 il nuovo diritto di famiglia. Stefania Noce è stata la prima donna a essere uccisa da un “raptus”. 24 anni, trucidata insieme al nonno nel 2011. Oggi è un simbolo: da quel giorno parliamo di femminicidio”. Silvia Garambois (presidente GiuLia)

Non riusciva ad accettare che fosse stato lasciato”

“Ubriaco picchia la moglie senza motivo(se ci fosse stato sarebbe diverso?)

Dispetto all’amico: gli violenta la mamma”. Titolo ‘stranamente’ diventato virale. La violenza è anche psicologica.
La notizia vera si trova in un altro giornale
: “Minaccia un coetaneo e abusa sessualmente della madre. Resa dei conti malavitosa”.

“Violentata nella notte da 3 uomini, prostituta…” oppure
“Bendata e stuprata da 3 persone”…
era necessario dire prostituta? Certi termini portano altri giudizi e stereotipi.

“Tortura la compagna per 3 settimane, il dramma della gelosia

“Uccide la compagna e si suicida davanti alla parrocchia“: pensiamo di rendere meno cattivo l’assassino? O giustificarlo se: Non venivo chiamato col mio nome durante l’intimità”

“Il mostro della gelosia mi ha trasformato”

“Ho fatto una stupidaggine

“Era la mia ossessione

“Uccide la moglie e si toglie la vita: le vittime sono di Lecce”

“La ribellione di un uomo debole”

Piegato, vinto da quel rapporto

“Massacra ex a martellate: si trasforma in folle giustiziere

ira incontrollabile

forte gelosia

al culmine di un litigio

tragedia della gelosia

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