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Processi mediatici, sempre una questione di tifo

“La giuria ha raggiunto un verdetto?”. Tanti film e serie TV made in U.S.A. (più che Gran Bretagna) hanno scene di tribunali, formali o comiche a seconda del genere. Quasi sempre giocano sull’effetto che l’imputato può generare sulla giuria popolare, puntando sull’aspetto psicologico o, più semplicemente, cercando di divertire. Comunque, sembra un momento che prima o poi capita nelle vite della maggior parte dei nipoti di Sam.

Common law, civil law e la giuria popolare

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Il sistema giudiziario dei paesi anglosassoni è di common law, contrapposto alla civil law di derivazione romana. Semplificando, il primo tiene conto dei precedenti più che della tipizzazione delle norme. In pratica, mancano i codici come i nostri civile e penale ma, basandosi su principi fondamentali e sentenze passate, i giudici possono fare il loro lavoro. Poi c’è l’istituto della giuria popolare.

Dodici cittadini che seguono processi penali, per concordare il fatidico verdetto in base al quale il giudice emetterà la sentenza. Non che il giudice sia un semplice esecutore, può esprimere le proprie opinioni prima che i giurati civili si riuniscano, gli fornisce un riassunto, dà istruzioni su cosa considerare rilevante o meno. Poi ci sono gli accorgimenti per evitare sentimenti di empatia o di astio verso l’imputato, per affinità o contrapposizione di genere, etnia, religione, classe sociale.

Anche l’Italia fa ricorso, ridotto, alla giuria popolare. Nei reati più gravi giudicati dalla Corte d’Assise e d’Appello, il collegio giudicante è formato da togati e “laici”, sorteggiati tra candidati con requisiti minimi: età fra i 30 e i 65 anni, godimento di diritti civili e politici, buona condotta morale, possesso della licenza media inferiore (Corte d’Assise) o superiore (Corte d’Appello).

Processi televisivi

Una puntata di Porta a Porta su Cogne
Una puntata di Porta a Porta su Cogne

Tutti gli altri devono accontentarsi di elaborare le proprie teorie davanti al televisore. E sì che l’ampia programmazione soddisfa anche le curiosità più morbose, spesso deviando dalla storia principale.

Wikipedia fa risalire la nascita dei processi mediatici al 2006, anno in cui il piccolo Tommaso “Tommy” Onofri, 18 mesi, fu rapito e ucciso. La TV segue casi di cronaca nera da quando è stata inventata, ma appunto, prima seguiva. Si basava su fatti, riportava quanto accadeva in aula o quanto dichiarava la polizia. Non lanciava congetture, non organizzava tribune tra colpevolisti e innocentisti, persone che in molti casi non hanno visto carte, indizi, testimonianze, guidate solo dall’istinto.

Effetti nefasti

Il debutto del processo mediatico fu disastroso. Il padre di Tommy, Paolo, peraltro morto circa nel 2014 a soli 54 anni, venne dipinto come un assassino, probabilmente pedofilo, forse satanista (per una catenina male interpretata). Probabilmente non bastava che la sua vita fosse segnata dal dramma della perdita del figlio.

Ma lo spettacolo non si è fermato, perché per fortuna di omicidi più o meno misteriosi da spettacolarizzare ne abbiamo avuti ancora.

Corto circuito mediatico

Raffaele Sollecito e Amanda Knox
Raffaele Sollecito e Amanda Knox

Seguire la cronaca nera fa parte dell’informazione, ma serve deontologia. Non serve a niente intervistare i vicini, che raramente possono andare oltre il “salutava sempre”. Non serve attribuire appellativi come “angelo” o “mostro”, dipingere atmosfere da romanzo gotico, dove tutto è “dell’orrore”, la villetta, il casolare, a volte un’intera cittadina come Cogne (Annamaria Franzoni). Perugia (Raffaele Sollecito, Rudy Guede e Amanda Knox) non è improvvisamente capitale della droga e della perdizione, nemmeno fosse la Colombia di Escobar.

L’influenza in certi casi può andare anche nel senso opposto a ciò che sarebbe naturale, con il corso delle indagini a plasmare la narrazione mediatica. Ad esempio, “zio Michele” – che nel frattempo ha perso il cognome Misseri, perché non è più solo un imputato, ma un personaggio – si è riferito alla nipote Sarah Scazzi come “angelo biondo”, perché il linguaggio televisivo è entrato di prepotenza nel parlato.

Fattore nazionalistico

Gli Stati Uniti hanno celebrato l’assoluzione di Amanda Knox, perché la cittadinanza faceva automaticamente tifare per lei anche Hillary Rodham Clinton. E a parti inverse, l’opinione pubblica italiana si è schierata con Chico Forti, condannato all’ergastolo per omicidio, o con i due Marò in India.

Altre volte, però, può essere anche questione di sopravvivenza. Inizialmente, per l’omicidio di Yara Gambirasio, fu accusato Mohammed Fikri, marocchino, per via di una traduzione errata.  In quei giorni ero ad Amsterdam e un inserviente marocchino (in questo caso specificare la nazionalità è funzionale) mi chiede: “che fine ha fatto la ragazza, quindi?”. Magari non la comunità marocchina in Olanda, ma quelle in Italia saranno state sollevate dell’estraneità di Fikri. Di certo non c’è bisogno di altro sentimento anti-migranti o, peggio ancora, di ritorsioni insensate. Lo sanno bene alcuni rom e rumeni, che dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani nel 2007 a Roma, hanno vissuto qualche tensione in prima persona, come se fossero tutti correi.

Ognuno resta della squadra

Probabilmente nel futuro cambierà ancora il modo di raccontare la cronaca nera, le indagini e le verità processuali. Ovviamente una sentenza può essere sbagliata, ma resta l’unico parametro di riferimento, specialmente in casi di cronaca nera, dove non siamo parti in causa, ma spettatori – il discorso sarebbe diverso per i processi a sfondo politico o sociale.

Ma ancora, la trattazione mediatica è caratterizzata dalla presenza delle due squadre di colpevolisti e innocentisti. E i tre gradi di giudizio non ci faranno cambiare l’opinione iniziale, chi pensava che Amanda Knox fosse colpevole, ancora lo pensa, così per l’innocenza o meno di Olindo Romano e Rosa Bazzi.

Puoi cambiare tutto, ma non la mamma e la squadra (Emilio Fede a parte), dicono i tifosi.

  


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