La definizione più comune di “identità” è riferita alla persona, ovvero “l’essere quello e non un altro”, una sorta di consapevolezza di sé stessi, mentre il “razzismo” è una sistematica “discriminazione” basata su “un’ideologia, teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente «superiori», destinate al comando, e di altre «inferiori», destinate alla sottomissione”. Eppure l’identità è anche un “recinto” dal quale è difficile uscire, mentre il razzismo si trasforma spesso in “vittimizzazione”, un “nuovo” modo, ritenuto più accettabile, per discriminare…
I primi problemi nascono già dalle definizioni. “Definire è limitare”, diceva Oscar Wilde. Ed è vero: nel momento in cui si definisce qualcuno o qualcosa è come se ciò che abbiamo veramente davanti svanisse, rimanendo totalmente identificato nella definizione. Qualcun altro aveva detto che nel momento in cui un bambino vede un uccello per la prima volta, lo vede sul serio, ma una volta che esso sarà definito, come colomba, gabbiano o usignolo, la vera “esperienza” di quell’animale svanirà lasciando al suo posto una “più fredda” definizione, composta da determinate caratteristiche imprescindibili.
Proprio come lo stereotipo, dunque, anche l’identità è una sorta di “recinto in cui si posizionano persone in carne e ossa”, dice Giovanni Ruocco, docente di Pensiero politico della colonizzazione e decolonizzazione alla Sapienza di Roma. Già, perché l’identità non è solo auto-definita, rimanendo nel campo della psicologia, essa è soprattutto etero-diretta e una volta formata, ci affibbia un determinato status. Per cui se ti definisci “giornalista” avrai determinate caratteristiche che un “filosofo” o un “cuoco” non avranno; così come tutto cambierà nella mente delle persone, definendo qualcuno come un “timido”, piuttosto che un “estroverso”, un “bianco” rispetto a un “nero”, una “madre” rispetto a una “donna”…. eccetera, eccetera, eccetera. Il problema è che molto spesso, qualsiasi identità ci venga affidata, “essa non ci descrive”. Non pienamente almeno, essendo ogni persona diversa da un’altra.
Allo stesso tempo il razzismo non è nemmeno solo discriminazione. Anche se è la “definizione più comune”.
Oggi per esempio parliamo di “migranti”. Ma, nonostante sia un termine migliore rispetto ad altri del passato (“immigrati”, “extracomunitari”, “irregolari”, “vu cumprà”), la retorica che gli sta dietro permane. Così come la definizione permane, da cui si biforcano, il più delle volte, due sole strade: la discriminazione, più spesso legata ai numeri e alla politica, e la vittimizzazione, più spesso legata alle singole storie e ai media. Ma mentre la prima è ormai generalmente riconosciuta, e almeno formalmente combattuta, la seconda risulta più sottile e accettabile, anche se cova in sé stessa la stessa tendenza discriminatoria.
In ogni caso significa, infatti, ricreare l’immagine sempre uguale che descrive una certa categoria di persone, in cui tu rientri per forza, se quella è la tua definizione, e anche se non ne condividi (tutte) le caratteristiche. Ché poi è la definizione stessa di “stereotipo” (“immagine dura”).
Quello di cui abbiamo bisogno, invece, sono persone. Persone e basta. Che hanno in comune con le altre persone, una serie di emozioni, pensieri, desideri. E non le loro definizioni legate a una serie di convinzioni, ire e paure del tutto personali.
I movimenti e le associazioni faticano a comunicare cosa significhi, per esempio, essere una “seconda generazione” in Italia. “Una definizione che non ho mai capito. Secondo nel senso che sono stato perfezionato rispetto a mia madre?”, si domanda Josef Tewelde, attivista di Black Lives Matter Roma. Quello che il movimento si augura è che ci sia più educazione su questo e proprio nelle scuole. “Nessuno, per esempio, ti dice che hai tempo 1 anno per diventare cittadino italiano, e solo al compimento dei 18 anni. Se hai 20 anni è già troppo tardi, ed è un altro modo per fare delle distinzioni”. Distinzioni che ricadono non solo su di loro, ma in generale tra compagni di classe, visto che gli “italiani” avranno di fronte a loro molte più scelte e possibilità. “Mia madre oggi è una ‘regolare pensionata italiana’, ma avrebbe potuto fare tante cose prima che non le sono state concesse per lungo tempo”.
Il vero problema, infatti, non risiede in chi mostra razzismo per ignoranza. Come diceva un amico molto convincente, “con quelli basta parlarci 5 minuti e vedi come la testa gli si apre come un melone”.
Il problema serio viene da chi consapevolmente utilizza questi pregiudizi in una serie di “narrazioni tossiche” che non aiutano a farci uscire dalla logica dell’emergenza o della sicurezza o del pietismo. Persone che vengono regolarmente definite regolari o irregolari tramite Ministero (dell’Interno). Vessazioni di vario tipo che per alcuni si ripetono da una vita e non possono portare a qualcosa di buono. Sono lotte che vengono portate avanti da tanto – “il G8 era un tentativo di lotta contro la narrazione della globalizzazione ed è stato represso col sangue”. Ma già con Black lives matter qualcosa è cambiato. Il movimento è molto vasto ed è su tutti i giornali, ma soprattutto è aperto a tutti: “è tutto inutile se poi ognuno esce da una porta diversa” e solo perché ognuno ha i suoi specifici problemi.
Capirsi, mescolarsi, integrarsi. Questo è l’unico modo per far vedere che la società è unita e non si farà più abbindolare dalle retoriche razziste.
Melting Pot organizza dei “Talks” dal titolo “Sguardi sul mondo“, “un format di incontri brevi (30-45 minuti) per ascoltare voci e prospettive diverse su questioni che, in qualche modo ci riguardano”. L’ultimo, dal quale abbiamo estratto le testimonianze presenti in questo articolo, ci interessava parecchio perché intendeva parlare di “Appartenenza, esclusione e riposizionamento: razzismo e pratiche antirazziste”. Aiutandoci a vedere sia l’identità che il razzismo da punti di vista poco considerati.