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Bambine-streghe, quando le “catene del pregiudizio” sono reali

“Centinaia di migliaia di malati mentali in Africa vengono ripudiati dai familiari, disprezzati, relegati ai margini della vita sociale. Temuti per la loro potenziale pericolosità, finiscono spesso per essere incatenati per giorni, per mesi… per un’intera vita. Il loro destino è frutto del pregiudizio, dell’ignoranza, della mancanza di terapie e medicine adeguate: una miscela di paura, povertà e superstizione che condanna le persone affette da problemi psichici o neurologici, a vivere in condizioni disumane”. Questa è l’introduzione del webinar organizzato dalla rivista Africa che si è svolto il 30 novembre 2021 con il contributo di GRT – Gruppo per le Relazioni Transculturali, una piccola ONG Italiana impegnata da molti anni in progetti di salute mentale nel Corno d’Africa e in particolare in Somalia...

Jobel è un’organizzazione di volontariato italiana che è stata fondata nel 2000 in Costa D’Avorio per “promuovere la liberazione, l’accoglienza e la reintegrazione sociale e lavorativa delle persone con problemi di salute mentale che le famiglie abbandonano nude lungo le strade delle città, legano con corde o catene agli alberi nei villaggi, o rinchiudono in stanze buie e malsane per il resto della vita…” (Tutte le foto vengono dal fotostream Flickr di Jobel Onlus)

Si parla sempre più spesso di psicoterapie e psicofarmaci. L’Aifa già dal 2019 aveva lanciato l’allarme per l’aumento nel consumo di ansiolitici e antidrepressivi in Italia (e in Europa). Ma forse, a noi europei, ormai sfuggono quali siano i veri problemi della vita. “Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 75% dei casi di malattia mentale si concentrano nei Paesi a basso reddito”. E se magari sono anche in guerra, come la Somalia o la Palestina, si può intuire come il dramma diventi esponenziale: “In Somalia si possono perdere amici e parenti da un momento all’altro, queste cose incidono profondamente nelle persone”, dice Guglielmo Giordano dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Mentre in Palestina, “a Gaza, una striscia di pochi chilometri, praticamente è come stare in uno zoo: da lì non si può uscire. E se esci, ti ammazzano”.

Nonostante questa situazione “i governi africani investono meno dell’1% nella salute mentale. E il continente soffre di una paurosa carenza di psichiatri e di specialisti dei disturbi mentali” (per esempio ce ne sono circa 200 in Nigeria, che però è anche la più popolosa nazione africana, abitata da oltre 200 milioni di persone). “A sud del Sahara il 95% della popolazione non ha accesso a cure psichiatriche. Gli ammalati soffrono in solitudine, isolati dal loro stigma”.

In Congo per esempio la malattia mentale è vista “come un sacrilegio. Anche per le bambine. Vengono chiamate enfants sorciers. ‘stregate’, e vengono anche picchiate e uccise. L’accusa di stregoneria, spesso fomentata da sette locali, talvolta è “una scusa per liberarsi di un problema”. Un bambino autistico o più semplicemente una bocca in meno da sfamare.

Natalina Isella (missionaria laica a Bukavu) salva le ragazzine accusate di stregoneria dai pastori-esorcisti del Congo. Racconta la storia di una bambina accusata dai vicini di casa (“mi hanno detto che ero una strega e mi hanno portata in una camera di preghiera”): “La gente era inferocita, la voleva bruciare viva, per fortuna il capo villaggio è riuscito a intervenire”. Se la voce di stregoneria si spande, infatti, spesso si arriva al linciaggio: “questo è prima di tutto un problema di accoglienza”. Che se non si risolverà non potrà portare ad altro che a un peggioramento: “i suoi problemi aumenteranno”. Un rifiuto così radicale che viene da fuori “con la piccola infanzia si aggrava” trasformandosi in paura e sfiducia. “La ragazzina adesso è migliorata, comincia a salutare qualcuno”. Ma sono tante le ragazze (e non solo, parliamo anche di uomini e donne adulti) che non riescono più ad avere rapporti umani “normali”.

Per fortuna “in varie parti del continente sta diffondendosi un nuovo e più consapevole approccio alla malattia mentale che coniuga le conoscenze della medicina occidentale e tradizionale. E non mancano esempi virtuosi di professionisti e centri specializzati che si prendono cura con successo di chi soffre di disturbi psichici”.

La necessità di andare oltre i preconcetti è evidente anche nel lavoro di Massimiliano Reggi in Somalia che ha cercato di andare a fondo fin da subito, nelle radici del problema, che sono spesso stereotipi che vengono anche da chi deve svolgere un lavoro di aiuto. Psicologo, antropologo e presidente dell’ONG GRT- Gruppo per le Relazioni Transculturali, già nel 2004 scriveva: “È interessante notare come dallo stesso ampio bacino di stereotipi proposto dallo psichiatra coloniale, attinga il medico in formazione psichiatrica in Francia nel dopoguerra, così come operatori dei servizi sociali che accolgono rifugiati politici nel momento in cui scriviamo”.

Per non parlare del “Basaglia d’Africa” (dalla nostra piccola prospettiva), colui che davvero “spezza le catene del pregiudizio“. Si chiama Grégoire Ahongbonon, filantropo beninese, “sembra avere un potere magico quando si avvicina a un paziente psichiatrico che si dimena sdraiato in una buca polverosa di una strada del Togo. Le sue mani lo calmano, in qualche modo lo tranquillizzano con poche parole portandolo con sé in uno dei suoi centri del Saint Camille”, che ospitano più di 3000 persone.

Spesso infatti, è solo un luogo dove stare, sentendosi compresi, che migliora qualsiasi condizione. Ne sa qualcosa Paolo Inghilleri (Professore Ordinario di Psicologia Sociale presso l’Università degli Studi di Milano) quando parla di psicoterapia transculturale e dei “luoghi che curano”. Ahongbonon è un vero e proprio “guaritore di follia”: succede quando medicina tradizionale e non, si incontrano.

Lelia Pisani portò avanti uno dei primi esperimenti, (psicologa, antropologa, dal 1977 lavora in progetti di ricerca e di Cooperazione allo Sviluppo in Mali ed Etiopia) insieme con Piero Coppo (poi autore di Guaritori di follia dell’altopiano Dogon in Mali). “Questi guaritori erano uomini e più raramente donne, spesso contadini, ma non solo. All’inizio abbiamo lavorato con loro in uno scambio di conoscenze, alla fine posso dire che la popolazione Dogon mi ha insegnato che non esiste un unico modo per guarire e per curare”.

Rimanere nell’ambito della medicina tradizionale e della farmacopea naturale nella cura della malattia mentale, dando al contempo più potere alle donne, è “la cura giusta per l’Africa”, secondo Rokia Sanogo, professoressa di Farmacologia e capo del Dipartimento Medicina tradizionale del Ministero della Salute in Mali.

Per ulteriori informazioni su Grégoire Ahongbonon e l’Association Saint Camille potete rivolgervi a: Associazione Jobel Odv
Via Roma, 54/a 33050 San Vito Al Torre (UD) – Italia Codice Fiscale 90007450308. Telefono: + 39 0432997320. Cellulare Presidente: +39 329 386 3040. Cellulare Segreteria: + 39 347 573 1746. Cellulare Ufficio Progetti: + 39 327 166 2281. Fax: +39 0432 997021

Senza dimenticare, però, che “il trattamento tradizionale e la concezione del disturbo psichico in Africa”, come racconta l’antropologo Alberto Salza, spesso si avvalgono di “cure basate sulla violenza estrema… oppure c’è una catena”. Dunque cure “coercitive e legate a feticci”. Se il disturbo viene interpretato come “un contatto con un mondo diabolico”, significa che “noi facciamo i conti con la malattia, loro con il male”. Infine, “alcune forme di malessere sono intrinsecamente legate al contesto sociale”.

L’aspetto più delicato è quello che riguarda i traumi psichici dei rifugiati in fuga dalla guerra. Alganesh Fessaha, dottoressa italiana di origine eritrea, da anni soccorre i profughi che attraversano il deserto, in fuga dal Corno d’Africa e in cerca di accoglienza, tramite la sua associazione Gandhi. Un’impresa non da poco: “Abbiamo salvato gente che rischiava reni, occhi… se non pagavano quanto chiesto dai rapitori. Erano molto impauriti all’inizio anche con noi, non si fidavano, di alcun rumore, neanche del cibo… la notte sentono ancora la voce dei compagni che gridano aiuto o le ragazze che vengono violentate. Un problema talmente profondo che ci vorrà molto tempo”.

Per questo “è necessario capirli, oltre a dargli da bere o da mangiare”. Non dimenticando mai che molti sfuggiranno a queste cure: “una donna che ha subito tante violenze non lo dirà perché si vergogna”. In alcuni Paesi i movimenti femministi che stanno scardinando certe emozioni distorte, sono ancora lontani da un cambiamento forte. Altre donne sono ora in salvo, ma le loro storie agghiaccianti rimarranno dentro per sempre: “una ragazza di 14 anni che era stata stuprata più volte dai suoi rapitori”, oggi “ha paura delle porte, dei rumori, di chi le cammina dietro, degli uomini”. Un’altra volta “liberammo un ragazzino di 13 anni, era uno scheletro. Un giorno mi disse: ‘io ho un fuoco dentro che mi brucia. Per spegnerlo devo aiutare gli altri ragazzi come me’. Ora vive in Francia e mi ha detto ‘Maman – mi chiamano tutti mamma – sappi che il fuoco è quasi spento’.

Grégoire Ahongbonon

Questo è tutto ciò che vale la pena conoscere per superare ogni illogico pregiudizio verso disturbi mentali ed emotivi – depressioni, paranoie, attacchi di panico, alterazioni dell’umore, allucinazioni – che tutti noi conosciamo bene, ma che in certe situazioni non possono far altro che aggravarsi. La prima soluzione è la comprensione. E parte anche da qui, tra le strade di casa nostra. Quando una persona si comporta in modo strano la tendenza è quella di attaccarla. Con rabbia, paura o disprezzo perché non si sta comportando secondo le regole. O chiamando la polizia, invece che un medico. Forse si potrebbe evitare anche tutto questo, semplicemente aprendosi a quello che sta succedendo. Forse davanti a noi non c’è un uomo o una donna che si sta deliberatamente comportando fuori dalla norma. Forse c’è una persona che non sta bene e, magari, anche solo approcciandola con calma starà meglio.

«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E’ una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.»

Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, 1979

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