I pirati hanno sempre generato un grande fascino sull’immaginario collettivo, basti pensare a tutta la letteratura (da Stevenson a Salgari), filmografia (non ultima, la serie dei Pirati dei Caraibi), ai riferimenti vari nella cultura popolare (uno su tutti, il soprannome di Pantani).
Ma se da un lato si sono mitizzati (e romanzati) il loro senso di avventura e di libertà, dall’altro la parola “pirata” riferita ad azioni e atteggiamenti ha assunto connotati negativi più o meno gravi, dal “pirata della strada” che investe e fugge, alla decisamente più innocua pirateria su film e album musicali.
Dalle antichità alle prime fonti sistematiche
La pirateria (vera e propria) è praticamente sempre esistita. Già dal XIV secolo a.C. l’antico Egitto veniva depredato dai Popoli del Mare. Anche Giulio Cesare, prima di diventare dittatore perpetuo, trascorse un periodo di cattività, ostaggio dei cilici. Il termine come è giunto a noi ci viene dall’antica Grecia, dove πειρατής (piratìs) voleva dire “tentare” ma anche “assaltare”.
In Occidente, però, il raccoglimento di fonti sistematiche sul fenomeno è iniziato molto più tardi, a partire dal XVI secolo. Dai Sargassi al Mar Cinese Meridionale, da Gibilterra all’Indonesia passando per il Golfo Persico, praticamente nessuna zona era esente dal rischio di un abbordaggio.
Tipologie
Bisognava distinguere però tra le tipologie di quelli che chiamiamo genericamente pirati. I corsari, come Drake o Morgan, erano al servizio governativo. I bucanieri erano originari dei Caraibi e si organizzarono per provare a respingere gli spagnoli nel XVII secolo. Si distinguono dai filibustieri (a parte per l’origine del nome derivata dal boucan, attrezzo indigeno per arrostire la carne, contro l’olandese poi mutuato dall’inglese in free booty, letteralmente bottino libero) soprattutto perché, prima di pattugliare il mare, erano stati stanziali nell’entroterra.
I pirati non erano necessariamente delinquenti, molto spesso erano semplici disertori, che preferivano imbarcarsi verso una morte certa in breve tempo a una morte quasi altrettanto certa e rapida, ma con in più le ferree regole militari della marina. Questo rendeva inverosimile seppellire i leggendari – e non così frequenti – forzieri pieni di dobloni.
Pirati nella cronaca attuale
Al contrario, i pirati odierni che finiscono spesso nelle cronache, in Nigeria, Somalia, Malaysia e altrove, sono “terrestri” che vedono il mare più che altro come luogo di “lavoro”. Si inseriscono pienamente nei sistemi capitalistici per accumulare sostanze e, spesso, contendere il potere sulla terraferma ad altre fazioni.
Differiscono anche le motivazioni nell’intraprendere la carriera piratesca. Se secoli fa era più che altro un modo per morire alle proprie condizioni, spesso oggi è un l’unica via per sopravvivere in un contesto che non offre molte alternative e dove la comunità internazionale è riuscita ad ottenere poco quando non ha peggiorato la situazione (come in Somalia).
Bottino o riscatto
Riassumendo sinteticamente l’inchiesta di Nicolò Carnimeo nel libro Nei mari dei pirati, esistono due macro-categorie primarie in cui dividere i predoni oceanici contemporanei. Quelli interessati direttamente al bottino presente a bordo e quelli che sequestrano gli equipaggi per ottenere il riscatto.
I primi, spiega Carnimeo, possono arrivare anche guadagnare milioni di dollari dalla rivendita delle stesse imbarcazioni depredate, modificate e riverniciate come si farebbe con qualsiasi motorino o automobile rubata sotto casa nostra. Con la differenza che, senza la compiacenza delle autorità locali, tutto questo non sarebbe possibile. Implicitamente, si capisce come ci sia un alto livello di corruzione.
I secondi hanno nelle persone la fonte di guadagno. Da una parte è un bene per l’equipaggio, che serve vivo per monetizzare. Dall’altra, i pirati sfruttano il dilemma morale di chi, Stati o datori di lavoro privati che si rivolgono comunque al potere pubblico, deve pagare un riscatto per salvare vite e allo stesso tempo finanzia e foraggia criminali. Ma c’è un effetto collaterale che si può considerare positivo. I Paesi coinvolti in queste azioni, per contrastare il fenomeno, devono necessariamente sviluppare sistemi bancari più sofisticati che permettano un migliore tracciamento dei movimenti di denaro.
Sono tutti argomenti che Carnimeo usa per inquadrare queste attività nel contesto materialista e consumista del commercio internazionale: protezione del segreto bancario, persone considerate come merce, risparmio su scorta e carburante per la massimizzazione del profitto.
Enfasi dei rischi
Se i media, da un lato, riportano solo i casi più eclatanti, come quello della petroliera Nagasaki Spirit, carica di tonnellate di greggio, dall’altra enfatizzano oltre misura i rischi della navigazione in determinate acque, né più né meno di quanto avvenisse secoli fa. Al picco massimo della pirateria si stima ci fossero solo un paio di migliaia di pirati e qualche centinaio di imbarcazioni sulle decine di migliaia che solcavano gli oceani. Le probabilità di abbordaggi erano dunque molto basse – certo non per questo si poteva stare del tutto tranquilli.
C’è ancora una patina di romanticismo?
Ci sono delle eccezioni più “romantiche” anche nella pirateria di oggi, però. Di singoli, come Syaiful Rozi nell’Indonesia degli anni ’90, che redistribuiva i proventi tra gli abitanti dell’isola di Batam. O collettive, come il MEND (Movimento per l’emancipazione del delta del Niger), che sabota anche grazie a sommozzatori gli oleodotti delle multinazionali del petrolio che operano in Nigeria, generando inquinamento e corruzione nel governo centrale.
Anche nel MEND però ci si è discostati dagli obiettivi principali. Government Ekpemupolo, detto Tompolo, guerrigliero ex leader del MEND, è stato arrestato per riciclaggio e appropriazione di denaro pubblico, come non mancano le accuse di rapine a semplici pescatori o di gestire autonomamente il petrolio rubato, con raffinerie che certo non rispettano i più alti standard di sostenibilità ambientale. Che si tratti dei sabotaggi, delle raffinerie clandestine o, in larga parte, delle negligenze delle multinazionali nella manutenzione degli impianti, l’area del Delta del Niger è di fatto una delle più disastrate del pianeta.
Nonostante il nome in comune, i pirati di oggi non hanno molto a che spartire con quelli del passato, se non l’etimologia stessa del termine inteso come “assaltare”. E difficilmente scalzeranno i classici nell’immaginario collettivo.
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