20 anni fa New York veniva scossa dal drammatico attentato alle Torri Gemelle, simbolo finanziario di Manhattan e, per estensione grazie alla fama di Wall Street, del mondo. Un evento indubbiamente epocale, tanto che l’11 settembre 2001 non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Una di quelle date in cui è facile ricordarsi cosa si stesse facendo.
Non per tutti, però, è stato un momento storico che, in sé, ha cambiato il mondo. Non è così ad esempio per Dario Fabbri, giornalista e coordinatore America della rivista geopolitica Limes, che ritiene la narrazione più classica un filo gonfiata. Questo non vuol dire che, al di là se il mondo sia cambiato o meno quel giorno specifico, non ci siano state conseguenze altamente rilevanti sulla politica internazionale, sull’opinione pubblica, sull’immaginario collettivo, sulla percezione dei fatti. Ma più che l’attentato, che da solo non avrebbe certo messo in ginocchio gli Stati Uniti, ha pesato il modo in cui questi hanno deciso di reagire.
Di certo è cambiato, ancora una volta, il modo di fare guerra. Per la prima volta non ci si è mossi contro altri Stati o gruppi identitari, ma l’obiettivo si è spostato su un più generico terrorismo, nemico vago e meno identificabile. Almeno nelle intenzioni, visto che all’atto pratico si è intervenuto contro due Paesi, Afghanistan e Iraq, nel tentativo di rovesciarne i regimi per la famosa e contraddittoria “esportazione della democrazia”. Anche i protagonisti sul campo, negli anni, sono iniziati a cambiare, con sempre più ricorso ad agenzie private di sicurezza e ai cosiddetti contactor in aggiunta agli eserciti nazionali (e tradizionali).
Anche il mondo dei media si è evoluto, la velocizzazione delle comunicazioni ha portato sempre più alla rincorsa delle “breaking news”, le ultime notizie, un rapido susseguirsi di informazioni e aggiornamenti che non sempre (eufemismo) hanno aiutato a svelare la complessità del quadro generale.
Quello che gli Stati Uniti, accompagnati dalla “coalizione dei volenterosi” non sono riusciti a controllare come sperato sono state proprio le operazioni strategiche nello scacchiere mediorientale, andate nel senso opposto a quanto sperato dall’amministrazione neo-conservatrice di allora.
Contrariamente a quanto teorizzato negli anni Novanta con la dottrina Wolfowitz, gli Stati Uniti sono usciti ridimensionati da questi ultimi 20 anni. Non viviamo più in un pianeta unipolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Altre potenze, Cina in testa, si sono affacciate prepotentemente sullo scenario mondiale. Mentre gli USA, evidentemente poco memori del Vietnam, rimanevano incastrati in strategie fallimentari, divenendo incapaci di mantenere il ruolo (ormai anacronistico?) di “poliziotto del mondo”.
La fine della Guerra Fredda sembrava aver spianato la strada agli Stati Uniti, fin troppo sicuri di non avere più rivali. Per raggiungere lo scopo, qualche decennio prima, era sembrata una buona idea finanziare e addestrare i talebani in chiave antisovietica. Li chiamavano anche freedom fighters, combattenti per la libertà. Solo dopo sarebbero stati “terroristi”. Probabilmente nessuno nell’amministrazione Reagan aveva letto Frankenstein, con l’annessa possibilità che la creatura si ribellasse al suo creatore.
Alla luce di quanto successo recentemente, con il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan dopo 20 anni di paziente attesa, l’unico intervento “efficace” si è rivelato quello contro Saddam Hussein. Che in realtà nulla aveva a che fare con l’11 settembre, a differenza del governo afghano, strettamente legato ad al-Qaida (letteralmente, “la base”, nome che tradotto non fa così paura).
Essendo 15 dei 19 attentatori sauditi, così come la mente Osama bin Laden, sarebbe stato apparentemente più logico attaccare l’Arabia Saudita, ma gli Stati Uniti non potevano permetterselo. Sia per i forti rapporti commerciali che per l’effettiva estraneità della famiglia reale con l’attentato (criterio questo che non è valso per l’Iraq). Reali che non erano estranei però ad al-Qaida, cui elargivano lauti finanziamenti purché operasse fuori dall’Arabia.
L’invasione dell’Iraq aveva anche l’obiettivo di infastidire i sauditi, fargli pagare un prezzo per l’11 settembre. L’Iraq era di fatto uno Stato artificiale, tenuto insieme solo da Hussein e che prima o poi avrebbe inevitabilmente fatto i conti con le forti divisioni interne (vedi Jugoslavia o Libia). Ma fungeva quasi da cuscinetto tra le due potenze dell’area, l’Arabia e l’Iran, con quest’ultimo che, grazie alla caduta del rais, ha potuto aumentare l’influenza sulla parte sciita dell’Iraq – altro effetto imprevisto dagli Stati Uniti, che speravano di attirare a sé tutti gli iracheni.
A intravedere il declino statunitense prima degli americani stessi è stata la Cina, che ha finanziato la guerra al terrorismo per, usando le parole di Fabbri, “non disturbare un nemico che sta sbagliando”. Gli USA si sono ritrovati, 20 anni dopo, troppo stanchi e incapaci di continuare a fare il bello e il cattivo tempo, chiudendo un ciclo fin troppo imperialistico che non ha certo giovato all’immagine di zio Sam nel mondo, anche nei Paesi alleati.
Se le casse degli Stati Uniti sono state gravate da una spesa di circa 8 triliardi in 20 anni, secondo stime della Brown University (a cui aggiungere i costi della crisi economica del 2008), il PIL cinese è passato dal 12% al 70% di quello statunitense. Tanto che ormai da diversi anni si parla di fine del “sogno americano”.
Per quanto sembri strano accomunarli, sia Obama che Trump hanno adottato una strategia estera molto simile, di graduale disimpegno. Meglio concentrarsi sulle questioni interne – che poi spesso è ciò che fa la differenza tra rielezione e non rielezione.
Che il mondo sia in qualche modo cambiato in 20 anni è forse un fatto più fisiologico, dettato dal concatenarsi degli eventi più che da una singola causa emergente.
Il terrorismo jihadista, riporta l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), nel frattempo è cresciuto di 6 volte, solo il 2019 ha visto 5mila morti in quasi 900 attentati. Il pericolo è aumentato esponenzialmente soprattutto in Africa e Asia, dove gli attacchi sono diventati il 60% del totale contro il 18% di fine anni Novanta. Dall’11 settembre, le vittime del terrorismo o della guerra ad esso sono ben 900 mila, di cui 335 mila civili.
Dall’altra parte sono riesplosi pregiudizi e sentimenti anti-islamici. Sempre l’ISPI, segnala come se negli Stati Uniti nel 2000 fossero stati riportati 12 episodi di aggressione islamofoba, nel 2001 questi erano già diventati 93 e nel 2020 ben 227. Fomentati da una narrazione (non solo oltreoceano) che parla troppo spesso di “scontro di civiltà” tra occidente libero e oriente oppressivo e desideroso di imporre la Shari’a agli “infedeli”.
L’11 settembre è stato uno spartiacque soprattutto dal punto di vista emozionale, marchiando anche la memoria di chi non era direttamente coinvolto. Lo stesso Memoriale, aperto dal 2014 dove prima sorgeva il World Trade Center, punta molto sull’aspetto emotivo.
Più che il racconto dell’organizzazione logistica e del compimento dell’attentato, presente ma marginale, ha lo scopo di ricordare le singole storie delle vittime, di chi è intervenuto per provare a salvare vite, la voglia di riscatto dei sopravvissuti.
Dear New York, I know a lot has changed,
two towers down, but you’re still in the game
Home to the many, rejecting no one
Accepting peoples of all places, wherever they’re from
Beastie Boys, An Open Letter to NYC, 2004