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Oggi mi chiedevo: perché sono stata plasmata per un mondo che non esiste?

Non ho modo di contribuire alla società nel modo in cui mi è più congeniale perché non ho un lavoro.

D’altra parte, ho un curriculum che nemmeno avrei potuto scrivere, figuriamoci lavorare.

Ho trentuno anni, studio da più di sedici, lavoro da dieci, ho fatto ventidue lavori diversi, diciannove neri e tre veri, di quelli regolari e tutto, voglio dire, soprattutto pagati.

Sono giornalista.

Milioni di persone passano la quasi totalità della vita a prepararsi al lavoro e dunque lavorare, mezzo per ottenere il fine più alto di tutti – vivere – ma se è vero che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 della Costituzione), allora io non ho mai lavorato.

Il mio curriculum dunque è pura fantasia. E in parte è proprio così: in Italia le cose sanno incepparsi in modi talvolta così ostinatamente illogici da sfiorare l’assurdo. Come un disco incantato, come il latte alle ginocchia, come in Smetto quando voglio, cioè mai.

Ma da qualche parte dovevo pur iniziare – se volevo provare a vivere una mia vita. Curiosamente quando si parla di lavoro, se non hai iniziato da qualche parte, non puoi iniziare da nessuna parte, anche “prima esperienza”. Una condizione che frustra ogni tipo di entusiasmo e buona volontà, solo i più caparbi ce la fanno, lasciando agli altri un ruolo complesso, “da eterni impreparati in formazione, alla fine troppo preparati”. In ogni caso troppo esosi.

Si inizia quasi sempre da uno stage. Che si pronuncia con la a alla francese, sennò è palco. Ma più o meno siamo là. È l’inizio infinito del gioco delle parti. Dallo stage inizi a comprendere quei due – tre meccanismi, nel lavoro, che fanno muovere gli ingranaggi. Il primo sono le conoscenze. Il secondo è l’assenza totale di qualsiasi competenza. Il terzo, ed è il merito, arriva solo sei uno scienziato o super specializzato nelle due – tre categorie che vanno sempre alla grande e di solito hanno a che fare con banche, vendite e tanto marketing (comunque tutto al nord o al massimo molto al sud, al centro c’è forse la Fossa delle Marianne). Sono meccanismi che purtroppo non sfiorano neanche per sbaglio l’enorme fascia media di lavoratori che non è né cerebrolesa né Einstein, e a cui a un certo punto, per forza di cose, rimangono solo “le conoscenze”, intendendo con queste “le persone che conosci” e non più tanto “le esperienze che hai fatto”. La guerra è dura per gli umanisti.

Qualcuno cerca pure di evitarle all’inizio, poi, quando vede che da specializzato, pur di far qualcosa, si imbarca in lavori che non gli appartengono, capisce che forse non è giusto, perché sa che sarebbe un lavoratore migliore nel suo campo se solo avesse l’occasione di farlo vedere. La conoscenza prende tutti prima o poi, quando è l’ultima strada che rimane. E così tutto inizia, e continua, sempre, con una conoscenza. Mica solo tra i politici e la finanza. Vogliamo ancora far finta che non è vero? Indignandoci su atteggiamenti che perpetriamo continuamente, e che spesso sono vizi, ma altrettanto spesso sono naturali scappatoie a un’offerta monolaterale che ne fa passare uno per cassaintegrarne cento.

Della conoscenza, dell’amico o del parente di turno, si dice solo che ti fa avere il lavoro, ma la realtà è sempre più complessa della cronaca. Io per esempio non sono “figlia d’arte”, quindi gli animi all’interno della mia famiglia si rivelarono contrariati fin da subito quando, una volta presa Comunicazione, avevo perso per sempre l’occasione di percorrere la via più semplice, quella che caratterizzava la mia famiglia, Medicina.

Non tutti sono “il parente di Alemanno”: ai “ranghi più bassi” il traguardo è comunque lontano. A quelli ancora più bassi, nemmeno ci si arriva. Se hai questa fortuna, almeno te lo fa approcciare: un’amica di mia cugina lavorava in un noto giornale di sinistra, ottenni almeno un colloquio, e ottenni almeno uno stage, il primo di una lunga serie.

“A lavoro”, redazione di un giornale di sinistra, segreteria.

Parlo con una tizia seduta alla scrivania, che mi risponde senza alzare lo sguardo dallo schermo.

“Certo che, non dico tanto, ma almeno il rimborso per la tessera dell’autobus e dei buoni pasto. Vengo tutti i giorni, anche il sabato, talvolta pure i festivi”.

“Eh lo so, c’hai ragione… ma c’è la crisi”, dice smanettando al computer.

“Beh, ma pure con una colletta, cioè alla fine sono trenta euro”.

“C’hai ragione… ma siamo tutti in cassa integrazione”.

“Ma non è manco un euro a testa!”

“Eh, c’hai ragione…”

Meglio non averne e farsi i cazzi propri, in effetti. Ma mai dimenticare la prima lezione del giovane precario: non disperare.

Anni dopo, a cena fuori con un’amica.

“Non so che dire… sto qui alla soglia dei trent’anni a fare stage su stage, sono la donna più formata della storia cazzo! Eppure, eppure!, c’ho un’insicurezza che non t’immagini, tutte le volte che rispondo a un annuncio di lavoro mi sento sempre la più incompetente del mondo. Co’ sto precariato m’hanno precarizzato tutto, pure l’anima… de li mejo mortacci loro”.

“Ma ora hai un nome sul curriculum”. Un nome che è un nume che ti accompagnerà come un faro nella notte e ti porterà alla svolta della tua vita. Ma coi grandi nomi, titoli, qualifiche, cambia ben poco. Anzi, se possibile la faccenda peggiora.

“Ah, il noto giornale di sinistra* eh…”, di fronte alla scrivania di Mediaset.

Oppure, “Ah lei è proprio giornalista eh, cercavamo appassionati di scrittura… sa’ ci bastava”.

Ci basta scrivere in italiano leggibile, del “qual’è” non importa a nessuno, del tentare di riportare, non dico la verità perché quello non è mai stato possibile, ma almeno interessi reali oltre la sola voglia di spiare, non c’è più bisogno. “Motori & Scuola”, che sito è? L’articolo sul selfie del seno fotografato di lato, a fianco a quello che ricorda Pasolini, che vuol dire? Niente da dire contro gli appassionati di scrittura, ma l’assurdità si raggiunge quando la realtà non sta al passo coi tempi.

Che fine hanno fatto le professioni?

Perché sono stata “plasmata” per un mondo che non esiste?

“Sento l’energia in piena per costruire palazzi, fondare fiere, inventare prodigi, per poi essere ridotta a irrigarla nella meccanica della fotocopia? E nel frattempo vedere mia madre invecchiare a lavoro, sempre più stanca, sempre più sull’orlo dell’infarto, e ogni anno che si sente quasi al traguardo della pensione… scherzetto! Ma pensassero a far lavorare noi, invece di far ammazzare di lavoro i nostri genitori! Mi rifiuto cazzo, io me ne vado, devo solo capire dove”.

“Forse bisogna raggiungere l’atarassia”.

“Atarassia? Assenza di dolore? Non si può, non esiste. Se ti viene un crampo al piede, atarassia un corno!”

O se devi passare articoli del tipo “Stagisti, sempre di più e sempre più sfruttati”, da stagista prima, e collaboratrice poi, che in ogni caso non ha mai visto il becco di un quattrino. E si fa pure problemi a dirlo perché la voce è imperterrita: “dai, comunque ti hanno dato tanto”.

Allora mi sento in colpa, anche se a ben vedere non sarebbe nemmeno sputare nel piatto in cui si mangia, visto che di certo non ci ho mangiato. Al massimo ci meta-sputo nel piatto, perché è vero dannazione, “il nome fa curriculum”. Ma anche quella è un’illusione.

Va bene, rispetto a quello che si sente dire in giro, non mi hanno parcheggiato alle stampanti, ma fatemi dire che dopo, quando ho assunto una professione e ho iniziato a collaborare con loro (a mie spese), dovevano darmi “soldi”: che spettano a loro, come spettano a me. Né più né meno: così “reverenziali” che pare quasi brutto chiederli. Parlarne. Voglio i miei soldi, cosa c’è di strano? Il fatto è che: se stai così in crisi che non puoi nemmeno darmi dei buoni pasto, non ti prendi la stagista che poi ti svolta l’uscita di Pasqua e quella di Ferragosto quando in redazione non c’è un cane. Se non sei in grado di cambiare, muori come è naturale che sia. E lasci il posto a qualcun altro.

“Beh ma è così che si inizia”.

“Sì, ma non si arriva mai”.

Chiamarla ancora “gavetta”, dopo i trenta, e dopo tutto quello che è cambiato nel mondo, forse non è giusto. Ci vedete come debitori su cui accampare diritti, giustamente, visto che ancora campiamo alle vostre spalle. Ma voi ce le avete avute le vostre prove, ci fu qualcuno che a un certo punto vi affidò un incarico, voi vi siete presi le vostre responsabilità, avete fatto quel che potevate, molti lavorando e molti mangiando, ed ecco il vostro compenso: ricchezza e figli poveri. Voi avete vissuto la sana ciclicità del dare e avere. Le vostre ricchezze sono state e sono fisicamente vostre: mangiando tanto prima, blindando concorsi e posti di lavoro, investendo sulla vecchiaia cheap e speculando sul capitale umano dei figli, così esosi.

“Mi hanno dato tanto”, ma quale esperienza dà poco? Le persone che alla fine hanno reso possibile il mio tesserino da pubblicista, perché mi hanno pagato, sono le più impensabili: due donne in pensione. Dopo aver fondato un’associazione di volontariato per bambini stranieri, si erano messe in testa di creare un giornale. Formare giovani laureati, farli scommettere su un nuovo progetto, accompagnarli per due anni, pagandoli quello che potevano, per farli arrivare all’esame. Grazie a loro oggi credo che se si vuole si può, ma la gente non vuole.

Ecco, ora ho il mio tesserino. Per andare al cinema a prezzo ridotto. Mentre continuo a passare i giorni a tradurre gli Annunci di lavoro nella Lingua Italiana.

Quelli su internet, soprattutto, che è una specie di giungla inquietante che inghiotte i CV e sputa circa tre feedback all’anno, cosa che alla lunga procura molta paranoia. “Perché gli altri duecentosessantanove non mi rispondono? Che ci fanno col mio curriculum?”

Dopo un’attenta analisi logica dell’”Approfittése”, ho capito che fondamentalmente si basa su una regola, esprime il contrario di quello che dice.

Al momento, purtroppo, la collaborazione è da intendersi a titolo gratuito” ovvero “Da qui in poi, fortunatamente per noi, lo sfruttamento non è da intendersi a titolo pagato“.

Rispondereste?

Retribuzione: i collaboratori migliori avranno la possibilità di continuare a lavorare per un prestigioso giornale“.

Quale onore.

La collaborazione del giornalista non prevede rimborsi spese, né qualunque altro riconoscimento economico. La partecipazione previo accredito, agli eventi teatrali, cinematografici e di arte è secondo noi il miglior rimborso“.

Sto “miglior rimborso” è già un diritto dei giornalisti (previa iscrizione e pagamento al proprio Ordine di appartenenza).

Specifichiamo per correttezza che la collaborazione è del tutto volontaria, ma per i più produttivi vi è la possibilità di fare un’esperienza professionale di primo piano in un ambiente giovane e dinamico, che può essere riportata anche sul proprio curriculum vitae“.

Che correttezza! E che concessione!

Un caso a parte fu l’analisi logica della risposta di un altro mio capo a una mia legittima lamentela circa il corrispettivo (dall’Annuncio qui passiamo più concretamente al Lavoro):

“Cara dottoressa, ha perfettamente ragione: trentacinque euro lorde a cartella sono una miseria” (trad. grazie per essersi lamentata da sola). “Ma le assicuro che, con i tempi che corrono, penso sia molto difficile che almeno per ora possa aumentare la retribuzione” (trad. ma si accontenti pure lei). “Ma chissà forse il vento girerà!” (locuzione sognatrice, piuttosto indeterminata: significa tutto e niente e probabilmente sarà niente).

Regola n°1: non disperare.

Dai che ti è arrivata una risposta  a un CV! “Per quanto riguarda il guadagno, essendo una start up che sta nascendo ora ed è in fase di sperimentazione non possiamo garantirle una precisa…

Non riesco più a leggere.

Oggi, vivo affittando una stanza di casa di mia madre ai viaggiatori che vengono a visitare Roma, il che mi permette di scrivere, anche gratis, senza troppi sensi di colpa o crisi di ingiustizia. Sto per compiere trentadue anni, sono convinta del mio cammino, e non posso più accettare di lavorare gratis. Posso invece portare avanti questa battaglia anche a nome di chi non può permetterselo, finché non ci uniremo, perché se non succederà, prima o poi finiremo pure di indignarci.

Alla fine della storia rimane una domanda: cosa ho fatto realmente in questi dieci anni, se non ho lavorato?

La redattrice? La giornalista? La biografa? Potrei dirlo, in effetti lo dico, in qualche modo ho soddisfatto una certa superficie sociale, questo è certo. Ho fatto finta di lavorare mentre “in realtà” facevo finta di costruirmi un ruolo finto per far sì che qualcuno facesse finta di cascarci, diventando vero. Mai successo. Il gioco delle parti continua e quando entri nel loop diventa difficile credere in qualcosa o determinare obiettivi. Anche perché se guardi in faccia gli altri li vedi nelle stesse condizioni.

Tra amiche e conoscenti le storie si moltiplicano: giovani collaboratrici, speranzose di un posto fisso, impegnate ad affrontare “mani morte”; giovani artiste che lavorano in banca, allisciate dalle prospettive lussuose e lussuriose dei grandi capi; giovani laureati in Comunicazione, a comunicare nel gelo delle strade, rigorosamente a cottimo, per note aziende dedite al sociale; giovani di tutti i generi con tanti contratti a progetto (infinito); giovani licenziati e riassunti in posizioni declassate; giovani “stagisti” a vita a 400 euro al mese; persone in gamba sull’orlo della depressione che pur di fare qualcosa partono, e vanno a Sofia, a lavorare in un call center; chi per questi lavori si prende le infezioni alle orecchie; chi in molti posti di lavoro litiga quotidianamente per i propri diritti (umani); ancora donne che si spezzano la schiena a lavare i cessi dei ricchi per due soldi; donne a cui, ancora, nemmeno si permette di conoscere il lavoro come strumento di indipendenza; e i cassaintegrati e gli esodati, le morti bianche e i suicidi, fratelli e sorelle di tutte le età, sfruttati, frustrati, truffati. Tutti amici miei. Tutti figli unici. Saremo davvero gli unici?

mio fratello è figlio unico
sfruttato represso calpestato odiato
deriso frustrato picchiato derubato
dimagrito declassato sottomesso disgregato
malpagato
e ti amo Mario

(Rino Gaetano, 1976)                            

“La canzone dell’emarginato a causa della propria decenza”, composta da chi già vedeva il nocciolo della questione. La decenza, ancora, di non prenderci quello che ci è dovuto, di fronte a gente che non sa più mettersi da parte, in un Paese che non segue più l’istinto ciclico della vita.

Ci stiamo facendo vecchi, prima di riuscire a ottenere lo spazio per fare quello che ci sarebbe spettato.

Anni di niente che ci hanno trasformato nei bambocci con cui ci definite. Anni a cercare di dire che anche noi abbiamo le nostre idee, sempre respinte a favore del solito. Anni che hanno umiliato tante persone, abbattuto gli animi, portato al NEET (Not Education, Employment, Training), il nuovo, altro, niente. Se riusciremo a trasformarlo di nuovo in qualcosa, non sarà di certo grazie a voi.

2 thoughts on “Auguri e figli poveri

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