Il termine “paziente zero” è tornato di attualità “grazie” alla pandemia di Covid-19. Letteralmente indica il primo paziente individuato al centro di un’indagine epidemiologica – non necessariamente il primo ad aver contratto la malattia. Piccola curiosità, sarebbe dovuto essere “paziente O”, iniziale di “Out of California”, risalente a quando negli anni ’80 si cercò di ricostruire la catena di contagi da HIV.
Per estensione, si è iniziato a usare “paziente zero” anche in altri ambiti, come l’horror, sia rimanendo tra i virus letali che relativamente alle “epidemie” di zombie, ovvero alla prima inconsapevole vittima che poi ha iniziato a “infettare” qua e là la popolazione, tramutandola in non morti.
Metaforicamente, e con una certa dose di fantasia, si potrebbe riportare ogni diffusione riguardante i vari aspetti della cultura popolare tramandati oralmente da millenni al concetto di “paziente zero”. Sarà capitato a tutti di chiedersi come siano nati e come si siano propagati proverbi, barzellette, miti, tradizioni, modi di dire, prima ancora le stesse parole.
Certo ci sarà stata una stratificazione temporale, un imbastardimento continuo, ma a un certo punto della Storia qualche gruppo avrà pur deciso di chiamare “sasso” il sasso e avrà convinto le persone intorno a fare lo stesso.
Qualcosa di più la sappiamo su alcuni neologismi contemporanei. Metà del lessico sportivo (centrocampista, contropiede, libero, goleador, melina, spogliatoio) viene da Gianni Brera. Altri termini diventati fin troppo quotidiani – e un filo fastidiosi per il loro abuso – hanno uno o più genitori.
Buonismo fu coniato nel 1993 dalla giornalista Maria Latella, poi fu usato per descrivere l’eccessiva indulgenza di Walter Veltroni, finché nel 1995 Ernesto Galli della Loggia lo estese alle politiche di sinistra sulle migrazioni. Radical chic ha radici statunitensi (Tom Wolfe nel 1972), poi fu Indro Montanelli a importarlo in Italia. Con un effetto valanga forse inimmaginabile, visto che ormai basta sintonizzarsi mezzo minuto su La7 per essere bollati come radical chic.
Da qualche anno va di moda “resilienza”. L’etimologia è latina, da resiliere (rimbalzare, tornare indietro, praticamente elasticità), ma l’uso è rimasto, per secoli, limitato a pochi ambiti scientifici. Nel 1914 Walter Cannon, fisiologo statunitense, iniziò a descrivere come “resilienti” quei materiali in grado di resistere agli urti.
Ma per ancora un secolo non è stato un vocabolo così comune, non in Italia almeno. Chi sarà stato il paziente zero? È probabile che il termine siano tornato dalle nostre parti dopo essere stato corroborato all’estero, tanto che ora tutto è resilienza, tra un po’ perfino adattarsi alle penne lisce perché le rigate sono finite (provocazione?).
Altro viaggio Mediterraneo – oltreoceano e ritorno se l’è fatto la parola greca basis, base. Solo che, a differenza di resilienza, è tornata con un utilizzo sbagliato. Basic è sì popolare tra gli anglofoni, ma in italiano non si traduce con “basico”. Eppure tanti, troppi lo dicono, contagiati da non si sa quale traduttore grossolano zero.
Basico è un termine chimico, il contrario di acido, praticamente il tema di tutte quelle pubblicità dei saponi con il pH giusto per la tua pelle. Potremmo dire base, di base, basilare, ma non basico. Non per nazionalismo, le lingue si sono sempre contaminate – oltre ai più noti greci e arabi, abbiamo termini insospettabili perfino di origine franco/germanica (come bosco) – ma almeno nel giusto senso.
Ci sarebbero tanti altri esempi di parole iniziate a circolare oltre lecita misura non si sa grazie a chi. L’argomento è serio quindi non si dovrebbe fare troppa ironia, ma l’uso di “tossico” ora batte di gran lunga i film del compianto regista Claudio Caligari. Mascolinità tossica, relazione tossica, ambiente di lavoro tossico, società tossica eccetera eccetera. Va bene evidenziare il problema di certi comportamenti, giustissimo, ma esistono i sinonimi. Anche per non annoiare sé stessi con parole messe a ripetizione come col timbro di un distaccato burocrate.
Il paziente zero dei pazienti zero (in grammatica) è però, da tempo, l’entità malvagia che ha fatto circolare il “piuttosto che” come congiunzione e non come disgiuntivo. Peggio di “buonista” e “radical chic”, che hanno l’obiettivo più o meno dichiarato di denigrare un avversario politico, quindi di dare fastidio. Peggio di “resilienza” e “tossico”, che sono abusati ma a fin di bene. Peggio di “basico”, che è errato, ma senza malizia.
“Piuttosto che”, oltre alla scorrettezza, nasconde un inutile esercizio di stile, perché l’interlocutore sembra darsi un tono pronunciandolo a ripetizione. E oltretutto allunga il brodo insensatamente. Come scritto sul sito dell’Accademia della Crusca, si tratta di una “voga di origine settentrionale venata di snobismo” (o radical chicchismo?) in cui sono caduti, tra i primi, giornalisti e conduttori televisivi.
Tra le vittime anche Gino Strada, che nel lontanissimo 2002 parlò di persecuzioni contro “gli omosessuali, piuttosto che i poveri, piuttosto che i neri, piuttosto che gli zingari”. Ovviamente questo non scalfisce di una virgola il rispetto per Gino Strada, ma dire “non odio chi usa (male) il ‘piuttosto che’, ammiro Gino Strada (o tanti altri)” equivale a “non sono omofobo, ho amici omosessuali”.
La battaglia è probabilmente persa in partenza, alla fine l’uso diventerà così comune da far dimenticare o quasi l’origine. Noi guardiamo alle modifiche grammaticali avvenute nella Storia senza coinvolgimento, perché non ci hanno riguardato, non è lo stesso quando le stiamo vivendo. Per esempio non ci scandalizza il passaggio dal -ti latino (nelle sue declinazioni) alla “z”, ma all’epoca qualcuno avrà protestato per la decadenza dei costumi.
Nell’Eneide, Virgilio personificava la dea Fama come un mostro alato gigantesco, con un numero enorme di occhi, orecchie e bocche e in grado di spostarsi a grande velocità, chiara allegoria di come voci e pettegolezzi corrano rapidamente. Il passaparola ha da sempre permesso la trasmissione del sapere come di falsa conoscenza. I mezzi di comunicazione di massa hanno solo regalato un’opportunità in più, ma è la volontà (anche inconscia) di fondo di farsi “contagiare” che fa la differenza.