Se prima del 1872, alla concluse la spedizione scientifica Challenger, si credeva che gli abissi oceanici fossero inabitati, qualche motivo c’era. Come poter sopravvivere senza energia e luce solare e con una pressione insostenibile? Poi lo studio oceanografico finanziato dalla corona britannica rinvenne migliaia di specie allora sconosciute. La ricerca, lentamente ma inesorabilmente, ha iniziato a mettere insieme sempre più tessere del mosaico.
Molto, però, resta tuttora ignoto: sappiamo di più, ad esempio, della luna.
L’habitat più vasto e diversificato
Solo grazie alla superficie, gli oceani coprono oltre i 2/3 del pianeta, per cui sono indiscutibilmente l’habitat più vasto. E ora si sta capendo come la biodiversità anche al di sotto dei 200 metri, dove il sole non ha ormai più influenza, sia di grande rilevanza. Più o meno alla pari della foresta pluviale, considerata sinonimo di ricchezza di vita.
Solo una decina di anni fa i biologi hanno riscontrato la presenza di oltre 12 mila specie viventi nei mari artici e antartici. Di queste, 235 in comune tra Polo Nord e Sud, segno che i mari caldi non hanno impedito imponenti migrazioni. E l’elenco è in costante aggiornamento, grazie ai progressi scientifici. Come quelli messi in campo dal Centro Oceanografico di Southampton con il veicolo a controllo remoto dall’inquietante nome Isis. Che comunque può (letteralmente) far luce solo su una minima parte di un ambiente smisurato.
Paesaggio degli abissi
Gli abissi presentano paesaggi diversi. Estese piane che coprono circa il 50% della Terra; catene montuose sommerse come la Dorsale Medio-Atlantica, più lunga di Ande, Montagne Rocciose e Himalaya messe insieme; stretti canyon e monti isolati, come le decine di migliaia di rilievi sparsi nel Pacifico.
E se i fondali pianeggianti sono aridi, sulle rocce (perfino antartiche) proliferano coralli e spugne, anche se si è parecchio distanti dal più superficiale e caldo habitat in cui siamo abituati a vedere le classiche barriere coralline. Anzi, le specie abissali del genere Lophelia coprono superfici maggiori rispetto ai ben più famosi “colleghi” tropicali.
Purtroppo entrambi questi ambienti sono a rischio, quando non è il riscaldamento globale è la pesca a strascico, che può far danni anche a grandi profondità.
Fitoplancton alla base di tutto
Gli abissi non sono popolati solo dai più noti “mostri”, che catturano maggiormente l’immaginario collettivo – e non potrebbe essere altrimenti, visto il campionario di bizzarrie. Alla base di tutto c’è il fitoplancton, che si trova perfino tra le correnti antartiche. Poi l’incontro tra masse più calde e più fredde lo spinge in superficie, dove finalmente incontra la luce solare e può prosperare, dando origine alla catena alimentare.
Fitoplancton e plancton, salendo verso la superficie, trovano più particelle nutrienti, a dimostrazione del continuo interscambio che si ha tra ambienti differenti ma collegati. Come il plancton sale dagli abissi, così i fertilizzanti (ad esempio i rifiuti dei delfini) o i resti delle carcasse, meglio ancora se di grandi dimensioni come quelle dei capodogli, scenderanno verso il fondale, sfamando diverse specie.
Ma la scena la rubano le creature più strane
Nonostante la ricchezza di crostacei, molluschi, spugne, coralli, fitoplancton, la scena la rubano le strane, spesso spaventose creature abissali, all’apparenza primordiali per l’aspetto antiestetico (secondo i nostri canoni). In realtà sono frutto di un’evoluzione straordinaria, che ha guardato più alla funzionalità che non all’abbellimento (sempre secondo i nostri canoni).
Del resto, la bioluminescenza – l’emissione di luce da parte di organismi viventi – non si ottiene dall’oggi al domani, così come l’adattamento dei fluidi interni per equilibrarsi alla pressione esterna, circa 1000 volte superiore a quella sulla terraferma. Per questo molti degli abitanti degli abissi sono grandi solo pochi centimetri, si muovono lentamente per risparmiare energie in circostanze di scarsità di cibo o, per lo stesso motivo, possono resistere anche a lunghi digiuni, come alcuni squali che possono mangiare anche solo un pasto all’anno.
Secondo studi pubblicati sulla rivista scientifica Science, l’eccezionale evoluzione delle opsine, proteine della cornea preposte all’assorbimento delle onde luce, ha portato diverse specie degli abissi ad almeno 24 mutazioni.
Tecnologia che copia la natura
La tecnologia sempre più avanzata ha permesso di conoscere un po’ meglio un ambiente creduto inospitale. Questo ha portato gli studiosi a “copiare” (o cercare di farlo) le caratteristiche di diverse specie in modo da migliorare di conseguenza la tecnologia, in un circolo virtuoso.
Ad esempio il moto ondulatorio dei pesci dei fondali ha ispirato membrane che possono sostituire le eliche, meno adattabili alle turbolenze e alla pressione e inoltre pericolose per gli abitanti del mare; alcune aziende hanno iniziato a produrre lampade ricche di batteri luminescenti, senza usare elettricità; o ancora, c’è lo studio in campo medico di batteri in grado di metabolizzare metalli pesanti, riducendoli in forma non tossica, non solubile e quindi eliminabili dalle falde acquifere e dalla catena alimentare.
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