La professione dei cosiddetti contractors, militari ingaggiati da privati come sorta di guardie del corpo per civili in zone di guerra (o comunque “calde”), risente di un doppio stereotipo. Se da una parte si attinge all’epica eroica del valoroso soldato, dall’altra c’è un accostamento dispregiativo ai mercenari.
Di per sé contractor non vuol dire molto, se non contraente, firmatario di un contratto, al massimo appaltatore, è infatti l’abbreviazione di private security contractor. L’effetto che ha però la parola (straniera) sull’immaginario collettivo è molto potente, sicuramente più di “contraente”, che fa più grigio burocrate che Stallone o Schwarzenegger in mimetica.
Riorganizzarsi dopo l’Apartheid
La storia di questa professione è relativamente recente e dalle radici a dir poco discutibili. Nel 1989 l’apartheid è sul punto di crollare in Namibia e Sudafrica e le forze armate dei due Paesi verranno presto ristrutturate. Tra i nuovi disoccupati c’è anche tale Eeben Barlow, colonnello del Civil Cooperation Bureau, corpo responsabile dell’assassinio di diversi oppositori politici.
Barlow decide di mettere la sua conoscenza tattica e strategica al servizio di privati, intuendo il potenziale giro di affari: le zone di conflitto sono tante e sempre meno ideologizzate dalla Guerra Fredda. Fonda la Executive Outcomes (“esiti esecutivi”) e nel 1993 ha un incarico in Angola, fornito da una compagnia petrolifera che vuole difendere i suoi interessi nella città portuale di Soyo.
La fama arriva pochi anni dopo, quando la Executive Outcomes in pochi mesi riesce a tenere a bada il Fronte Rivoluzionario Unito in Sierra Leone, quando ormai era alle porte della capitale Freetown. La compagnia di Barlow non rimarrà attiva ancora per molti anni, almeno per quanto riguarda la sede sudafricana, chiusa nel 1998. In quell’anno infatti, il governo Mandela approva una legge che impedisce di operare come mercenari.
Forti dubbi sulla legittimità
Una delle questioni è se queste compagnie private siano assimilabili ai mercenari e quindi in contrasto con le direttive ONU, espresse dalla Convenzione del 4 dicembre 1989. Anche se ci sono forti analogie tra contractor e mercenari, c’è una sottile differenza. Un contractor presta servizio per una compagnia privata (petrolifera, ingegneristica ecc. ecc.), non per un esercito nazionale.
Tuttavia, nonostante questa distinzione, solo pochi Paesi hanno messo in piedi agenzie di sicurezza privata, come Stati Uniti, Regno Unito, Israele e Sudafrica e più recentemente Francia, Cina e Russia.
Nessuno di questi ha mai ratificato la Convenzione, a differenza dell’Italia, che è anche tra i firmatari del Documento di Montreux sull’adempimento degli obblighi giuridici internazionali in materia di sicurezza privata. Data la sottile differenza con il mercenarismo, tutto è rimasto in una zona grigia della legalità. Quindi non c’è nessuna società italiana di questo tipo, ma tanti dipendenti delle compagnie straniere: Afghanistan, Ucraina, Siria, Iraq, l’impiego di centinaia di militari privati italiani è diffuso dove c’è richiesta.
Fabrizio Quattrocchi
Il caso più noto in Italia è senza dubbio quello di Fabrizio Quattrocchi, giustiziato in Iraq nel 2004 e rimasto famoso per le sue ultime parole “adesso vi faccio vedere come muore un italiano”. Quattrocchi è stato fonte di divisione ideologica tra chi ha esaltato il contractor – anche, se non soprattutto, per la retorica dell’eroe italiano – e chi lo ha svilito a semplice mercenario. Ma è un po’ più sfumata di così.
Certamente il volume di affari è molto ampio, specie dopo l’invasione statunitense di Afghanistan e Iraq – Repubblica parla di 400 miliardi di dollari, con contratti mensili per i soldati privati che partono da 20 mila dollari.
Rischi del mestiere
D’altro canto i rischi sono altissimi, nel periodo più drammatico di attentati in Iraq, tra il 2003 e il 2007, si stima siano morti quasi mille contractor, a cui vanno aggiunte le vittime locali che fanno da appoggio logistico e di varia natura, grazie alla conoscenza del territorio. La situazione è paradossale, anche per questo la professione non viene vista come esempio di specchiata etica: la coalizione occidentale distrugge un Paese (l’Iraq) con la pur nobile motivazione di facciata di eliminare un dittatore sanguinario (Saddam Hussein). E poi si accolla la ricostruzione, infrastrutture, linee telefoniche, soprattutto oleodotti. Sono tante le compagnie private che grazie alle guerre in Medio Oriente si sono arricchite, come la Halliburton, dove casualmente lavorava Dick Cheney prima di essere vice di Bush jr.
Il lavoro di contractor è anche legittimo, ma fa storcere il naso a chi pensa che fare soldi a palate sfruttando sanguinosi conflitti e interessi miliardari di pochi non sia il massimo. Se non altro non è da eroe disinteressato.
Ci sono stati anche casi che hanno peggiorato ulteriormente la reputazione di contractor, come le decine di vittime civili causate ma, a onor del vero, questo va imputato a chi esercita male la professione, non alla professione in sé – che avrebbe solo compiti difensivi.
Alleggerire la spesa pubblica
Secondo alcuni, però, ci sarebbe un bel vantaggio a rivolgersi ad agenzie private per proteggere i dipendenti occidentali in zone di guerra: la spesa pubblica. Uno Stato potrebbe permettersi di risparmiare ingenti risorse economiche, delegando la gestione della sicurezza ai privati direttamente interessati e sollevando i contribuenti dagli oneri relativi. C’è pure chi auspica che l’Italia apra a questo tipo di agenzie, fonte di profitto, posti di lavoro e soldi nelle casse tributarie dello Stato.
Le guerre esistevano da millenni prima delle agenzie di sicurezza private ed è indubbio che l’azione di queste ultime sia importante per la salvaguardia di molti civili.
Al tempo stesso non si possono lasciar fuori tante argomentazioni sulla guerra, sulla sua gestione e sulle interferenze politico-economiche che sistematicamente si ripetono da secoli. E anche partendo con i migliori propositi, una professione del genere rischia di perpetuare queste distorsioni.