(segue dalla scorsa settimana, Le vite dei bianchi)… Gli Stati Uniti hanno un problema endemico riguardo la convivenza interetnica.
Nonostante le belle parole della Costituzione del 1787 “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, dotati dal Creatore di diritti inalienabili […] tra questi la vita, la libertà e la ricerca della felicità”, il Paese affonda le radici nelle iniquità molto più di altri. Questo non riguarda solo gli afroamericani. Basti pensare allo sfruttamento soprattutto dei cinesi nella costruzione della rete ferroviaria, che fu fondamentale per lo sviluppo economico nell’Ottocento.
Non stupisce dunque che la questione etnica sia più avvertita negli Stati Uniti e in Paesi con un forte passato colonialista più che altrove.
Memoria storica
Il dibattito sul tipo di memoria storica che sarebbe opportuno avere, si è allargato dalle proteste delle minoranze contro razzismo e pregiudizi alle statue di certi personaggi, simboli di un passato che ancora influisce sul corso degli eventi.
Probabilmente c’è poco da dire sui monumenti dedicati a generali sudisti e paladini di schiavitù e segregazione razziale. La realtà è invece molto più sfumata per quanto riguarda personaggi che, nella bilancia delle loro azioni, hanno grandi meriti e altrettanto grandi crimini. Come possono essere Winston Churchill o Cristoforo Colombo, tra i più presi di mira – ma anche la statua di Gandhi in Ghana non se l’è passata bene. Considerare solo uno dei due aspetti dà una visione incompleta.
Cancel culture?
Quindi, si vuole cancellare la Storia abbattendo o vandalizzando statue? La preoccupazione in tal senso non è infondata, ma (al momento) eccessiva. Bisogna considerare la concitazione del periodo, la rabbia che da Derek Chauvin finisce per travolgere indiscriminatamente secoli di Storia secondo il classico schema necessità di cambiamento – terrore – riassestamento (vale per la Rivoluzione Francese come per il #metoo).
L’obiettivo non deve essere cancellare o riscrivere la Storia, semmai arrivare a un nuovo modo di guardare al passato. Con un’ottica più equilibrata e condivisa, meno idealizzata (in positivo e in negativo), in certi casi con meno eurocentrismo – anche il considerarsi gli unici portatori di tutti i mali è un accentramento e una distorsione. Farsi domande più che avere certezze granitiche.
Peso delle azioni
Colombo è stato un grande esploratore? Certamente. Churchill è stato un grande baluardo antinazista durante la Seconda Guerra Mondiale? Senza dubbio. Ma ciò che è stato un bene per l’Europa, altrove ha significato oppressione. E in un mondo sempre più globalizzato (nel senso buono del termine), non si può non tenere conto della concezione di tutti. Senza dialogo, alcuni monumenti sono percepiti solo come l’ennesima imposizione propagandistica del vincitore.
Prima di condannare in maniera secca l’iconoclastia dovremmo anche chiederci come ci sentiremmo a parti inverse. Prima di distruggere (anche solo metaforicamente) bisognerebbe pensare a 360°, anche al valore storico-artistico. Senza filtri, per iperbole, non si salverebbero neanche le piramidi – che comunque nessuno ha ancora minacciato – così come il 99,9% di arte e monumenti mondiali.
Tridimensionalità del contesto
Altro aspetto su cui si insiste molto è la valutazione del contesto storico. Non ci scandalizziamo troppo per lo schiavismo degli antichi egizi, greci o romani. È talmente lontano nel tempo che non abbiamo un coinvolgimento emotivo. Come invece può succedere con un Churchill e la Seconda Guerra Mondiale (giusto un paio di generazioni fa), o con il colonialismo, che ancora ha riflessi sui rapporti internazionali e sociali.
Ma anche il contesto va visto nel suo contesto. Il suprematismo di Churchill viene spesso sminuito con un “erano altri tempi”. Il che è vero, ma erano gli stessi tempi di Hitler e Mussolini (attenuerebbe i loro ideali?). Ed erano gli stessi tempi di chi, anche se in posizione minoritaria, era antirazzista e progressista. Allo stesso modo, già nel Cinquecento, Bartolomé de Las Casas si batteva contro lo sfruttamento della corona spagnola sugli indigeni americani. Però bisogna riconoscere che il sentire comune era diverso e non possiamo distorcerlo con lo sguardo di oggi.
Cosa è normale?
Tra venti, cento, cinquecento anni, qualcosa che ora ci sembra normale, magari non lo sarà.
Se un giorno mangiare carne e derivati animali diventasse illegale, i posteri ci considererebbero alla pari di come facciamo ora con i conquistadores. Al momento possiamo auto-assolverci, ma c’è chi si muove in senso opposto, spinto dalla sua etica, quindi non possiamo far finta di non sapere. E pure se non arriveremo mai alla parità con gli animali – difficilmente ci siederemo allo stesso tavolo di trattative, come invece possono fare oppressori e oppressi, persino dopo l’Apartheid – ci potranno contestare forme di semi-schiavismo sugli umani, che tutt’ora sono in piedi grazie a un comodo silenzio.
Dalla fast fashion che consente di vestirci a poco prezzo agli amati e odiati smartphone, la cui filiera (ad oggi) va dall‘estrazione di minerali in Africa per i componenti hardware all’assemblaggio in Asia, in condizioni letteralmente da suicidio.
Siamo migliori? Tutto sommato, sì
Come disse il comico statunitense Louis CK (parlandone da vivo, a proposito di una percentuale di processi sommari del #metoo, in mezzo a tanta vera pulizia): “abbiamo scelta, in realtà. Possiamo avere cavalli e candele ed essere più gentili l’un l’altro o lasciare che qualcun altro molto lontano soffra miseramente, affinché noi possiamo lasciare un commento acido su YouTube mentre siamo sulla tazza del cesso”.
Tutto questo non per dire che non siamo meglio dei colonialisti, degli schiavisti o degli scientificamente razzisti. È ovvio che abbiamo fatto enormi passi in avanti.
Un giorno, qualcuno in Congo o in Cina abbatterà, a ragione, i simulacri di Bill Gates e Steve Jobs (par condicio e futuro distopico). Dall’altra parte del mondo si replicherà che erano geni innovatori immersi in un altro contesto storico. E la circolarità del tempo avrà svolto il suo compito.