L’omicidio di George Floyd davanti alle telecamere, l’ennesimo di un afroamericano perpetrato dalla polizia, ha fatto riemergere una problematica (nemmeno troppo) quiescente. Gli Stati Uniti, le sue forze dell’ordine, la sua società, sono razzisti?
Proprio come un virus può rimanere distante dagli umani per periodi più o meno lunghi, finché lo status quo non viene turbato (da wet market, deforestazioni eccetera), così fa ogni questione irrisolta, tra queste il razzismo.
Il caso Floyd ha riacceso il dibattito dopo nemmeno troppo tempo, ma con qualche differenza rispetto al passato. Non è il primo atto di brutalità della polizia verso gli afroamericani, né il primo omicidio ripreso in video, ma stavolta le reazioni sono sembrate più unanimi nella condanna.
Anche da chi solitamente si appella alla concitazione del momento, al fatto che un agente deve capire in un millesimo di secondo se il sospetto sia armato e pericoloso, magari quest’ultimo ha fatto un gesto fraintendibile con l’impugnare una pistola. Perfino la polizia (in questo caso di Minneapolis), che come ogni corporazione tende a fare quadrato intorno a sé, ha licenziato e incriminato Derek Chauvin (verrebbe da dire nomen omen) e la stessa amministrazione cittadina ha tagliato i fondi alla polizia.
Forse l’aria rilassata di Chauvin, addirittura con le mani in tasca mentre soffoca Floyd premendo il ginocchio sul collo (per quasi 9 minuti), con la disinvoltura di chi fa qualcosa al di sopra della legge perché può, è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso. Qualcosa che fa chiedere quale mai possa essere il contesto, sfuggito alla camera, che spieghi le azioni di Chauvin.
Per “fortuna” dei media schierati incondizionatamente a destra, sono intervenute le manifestazioni di protesta in tutti gli Stati Uniti, spesso sfociate in violenze e saccheggi. La violenza va sempre condannata, non c’è dubbio, ma non si deve ignorare il punto di vista di chi reagisce a evidenti torti.
Nel contratto sociale di hobbesiana memoria, le persone cedono una parte della libertà – con cui vivremmo allo stato brado – per organizzarsi in comunità e delegare determinate istituzioni al controllo della sicurezza. Casi come quello di Chauvin su Floyd sono una chiara “rottura del contratto”, dice in un video molto serio il comico sudafricano ma trapiantato negli Stati Uniti Trevor Noah.
“Chi guida un gruppo dovrebbe dare il buon esempio, come un allenatore nello sport, un insegnante a scuola o la polizia. Quando le istituzioni sono le prime a far cadere questo patto fiduciario di buone pratiche, perché i semplici cittadini dovrebbero continuare ad attenersi al contratto? Tutti si chiedono: a che serve fare rivolte violente? Dovrebbero chiedersi anche a cosa serve NON farle, se comunque vieni vessato e guardato con pregiudizio quotidianamente?”.
Perché comunque Floyd è la punta dell’iceberg, quanti controlli altrettanto violenti non si sono conclusi con la morte del fermato e non sono stati filmati?
Quando non c’è violenza, invece, non si perde occasione per criticare lo slogan ormai risalente al 2013 #blacklivesmatter. E allora le vite dei bianchi? E le blue lives dei poliziotti uccisi solo per rappresaglia? Sarebbe come sostenere che le campagne del WWF a protezione dei panda o di altri animali a rischio estinzione fossero un implicito invito a picchiare e uccidere cani e gatti. O, allo stesso modo, è come chi si lamenta per i “no alla violenza sulle donne” al posto dei “no alla violenza” in generale: dovrebbe tener conto degli squilibri di genere e da dove vengono.
In un mondo ideale non sarebbe necessario distinguere tra bianchi, neri, gialli, esseri blu di Avatar, uomo, donna, ma ancora non ci siamo arrivati.
È ovvio che tutte le vite contino, ma il pregio degli slogan è anche il loro difetto. Sono incisivi ma, proprio perché sintetici, non possono essere esaustivi del tutto. Forse sarebbe bastato aggiungere un too (anche) alla fine per essere inattaccabile. Ad ogni modo, il messaggio del movimento non è ritenere che le vite dei neri siano più importanti di quelle degli altri, è porre l’accento su due problemi radicati negli Stati Uniti (e non solo): razzismo e violenza (specialmente delle forze dell’ordine). Rafforzare i diritti di qualcuno non vuol dire toglierne ad altri, al massimo ne erode i privilegi.
Il primo problema, dunque, è la brutalità della polizia. Lo si è visto anche nel video girato a Buffalo, sempre manifestazioni per Floyd: un attivista (bianco) di 75 anni viene spinto, nemmeno troppo forte ma bisogna rapportare tutto all’età, cade, sbatte la testa e perde sangue e sensi. Il gruppo di poliziotti continua a marciare e lo lascia lì, saranno poi due militari a soccorrerlo.
Secondo la National Academy of Science, i soprusi della polizia sono addirittura tra le principali cause di morte per i giovani tra i 20 e i 35 anni, ma con un’incidenza doppia per i neri (una possibilità su mille) rispetto ai bianchi (una su duemila). Poi, se a una violenza sistematica aggiungiamo la cultura del sospetto e lo stereotipo del nero criminale, un pregiudizio strisciante nella società che di riflesso porta i poliziotti a usare procedure più drastiche, si arriva a dove si è arrivati (ripetutamente).
Contestualmente all’omicidio di Floyd ma in tutt’altra zona, al Central Park di New York, avviene un episodio emblematico. Una donna di nome Amy Cooper passeggia con il cane non al guinzaglio in una parte del parco dove non è consentito farlo. Christian Cooper, un estraneo con lo stesso cognome, la redarguisce per non aver rispettato le regole.
In tutta risposta lei, in preda all’agitazione nonostante la calma dell’altro Cooper, chiama la polizia sostenendo che “un afroamericano” stia minacciando lei e il suo cane. Il video, girato dal Cooper nero, è ovviamente diventato virale ed Amy ha perso il lavoro e pure ricevuto una denuncia per maltrattamento animali, visto che nel trambusto ha strattonato con veemenza il povero cane.
Non sappiamo se la Cooper sia effettivamente razzista, né quale sia il motivo della sua alterazione, potrebbe essere sotto stress per mille motivi – tra cui la quarantena per il covid19. Potrebbe essere una bravissima persona.
Ciò che diventa emblematico è la nostra percezione della percezione che la polizia ha dei neri (metapercezione?). Lucidamente o istintivamente, Amy Cooper ha fatto un ragionamento che diamo inconsciamente per scontato: per la polizia, “un nero” che ci sta minacciando è un pericolo molto più grave di “un uomo” che ci sta minacciando, e arriverà immediatamente. E la reputazione che la polizia, purtroppo, si è guadagnata ha dei fondamenti.
Solo nel 2018, riporta la Ong Nessuno tocchi Caino, negli Stati Uniti la polizia ha ucciso 1810 persone. A livello assoluto, i bianchi sono la maggioranza, con 649 vittime (35%), ma a fronte del 67,4% della popolazione. Tra i neri si sono invece registrate 377 morti (20,8%) contro una popolazione del 13%.
Nonostante non abbiano le stesse differenze culturali di gruppi di immigrazione più recente o con identità più definibili – come asiatici orientali, irlandesi, est europei e italiani, che pure abitano il Paese da secoli – gli afroamericani continuano a essere inseriti nel dibattito su quali modelli di convivenza vadano presi, oscillando tra integrazione, assimilazione, melting pot … (segue la prossima settimana)
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