Una volta appurato che “la sostenibilità non è una moda”, ma dobbiamo stare attenti perché “se tutto è sostenibile, niente è sostenibile“, arriviamo alla parte più “superficiale” della faccenda. Come la sostenibilità si riversa nei negozi, su internet, nelle campagne pubblicitarie. Districandoci in una sorta di “giungla verde” che è fatta di tante vetrine e alcune nuove realtà, anche impensabili. Dal grande ruolo al piccolo contributo, infatti, ogni persona ha una sua importanza fondamentale in questo percorso insieme. Considerando che perfino 1 euro può fare la differenza…
Green marketing significa “soddisfare i nostri bisogni senza intaccare quelli delle generazioni future, ma i nostri figli stanno già peggio”, sottolinea Marco Frey, professore di Economia, gestione ambientale e sostenibilità al Sant’Anna di Pisa. Per attuare il grande cambiamento, cioè, c’è bisogno di “una prospettiva integrata. Le Nazioni Unite con l’Agenda 2030 l’hanno capito: i grandi problemi sociali non possono cambiare senza cambiare il modo di sviluppo”. Prima del coronavirus eravamo già in triplice crisi: “economica (non congiunturale ma infinita), sociale e ambientale”.
Le imprese più importanti stanno quindi cambiando rispetto a prima? In fondo solo quelle hanno un peso reale immediato, ma anche qui la risposta sembra essere sì, finalmente qualcosa sta cambiando concretamente e in grandi numeri, se perfino una Erg si è trasformata “da raffineria a solo pale eoliche. Anche Enel è cambiato abbastanza, nei modelli di business e in quelli della comunicazione”. Dando vita a un’altra tendenza, quella del “branding diffuso dallo specifico al generale”. Enel, Tesla, Lavazza… tutte queste grandi aziende partono dal loro settore specifico per comunicare una “sostenibilità generale”. Anche se questo, c’è da dire, può portare a certi “prodotti pubblicitari un po’ mostruosi”, come il (doppio) brivido sulla schiena quando si assapora la grandezza di Gandhi e poi si legge… Telecom?
Il punto è la grande novità: “il primo rischio sentito oggi dalle imprese è quello ambientale”. Questo porta per forza di cose a nuovi approcci aziendali che non possono non tornarci indietro in modo positivo. Inoltre, “i giovani stanno accelerando moltissimo la tendenza. Anche un Paese individualista come il nostro sta finalmente cambiando: al 2012 era lo Stato a spingere le imprese alla responsabilità, dal 2013 siamo noi (responsabilità individuale) a essere il driver del cambiamento”. Inoltre, con effetto sorpresa, “ci sono tanti operatori finanziari che a gran voce richiedono trasparenza sui green bond”.
Ma che dire quindi di chi fa finta di essere green? Come Eni per esempio. “È un boomerang” perché di fatto potresti guadagnare molto di più rispettando le normative. “Normativa che poi non è (ancora) circolare, come l’economia che si vuole realizzare”. Ma comunque 20 anni fa nemmeno stavamo qui a parlarne…
Se il green marketing è una cosa buona, il greenwashing, invece, è l’insidia che c’è dietro. E’ quello che “spennella i prodotti di verde per inseguire la tendenza”, sottolinea Elena Tioli, blogger e autrice di Vivere senza supermercato e Occhio all’etichetta. E su questo siamo noi individui, in veste di consumatori, a dover stare attenti. Tra i consigli “fare attenzione ai prodotti che richiedono lunghe percorrenze o grandi inquinanti come plastiche o più involucri. Il kamut, per esempio, è sicuramente un alimento bio e sano, ma per il solo fatto che arriva dagli Usa, inquina molto di più. Le farine bio in generale andrebbero scelte in base a provenienza Ue/extra Ue”.
Evitare “l’insalata in busta che ha probabilmente subito già “4 lavaggi anche con il cloro”, che porta alla “perdita di molte proprietà nutritive ed enormi sprechi necessari per tutelare la ‘freschezza’ di certi prodotti”. Per poi scoprire che non è neanche così sicura. Proprio recentemente “l’Università di Torino ha rivelato che 3 prodotti su 10 contengono batteri”. Anche se l’Università stessa, dopo una serie di “notizie esagerate”, ci ha tenuto a sottolineare che si tratta di un’unica ricerca su 100 campioni. Ma di certo la tentazione di lavarla comunque permane, il che è uno spreco ulteriore (non foss’altro per questa sua “integrità magica” che la fa resistere in frigo per giorni). E poi, va bene la comodità, ma non si può certo affermare che l’insalata in busta sia meglio (a livello anche di costo e sapore) di quella venduta in cespi al mercato… Tra gli altri consigli, quello di tornare o rimanere fedeli alla vecchia, cara “moka, molto meglio delle cialde” a livello di sostenibilità (a meno che non siano compostabili, come quelle Vergnano).
L’etichetta dice tutto. Il Biodizionario, primo dizionario online su cosmetici, detergenti e alimentari con caratteristiche etiche ed ecologiche” ha creato un’app che si può consultare in ogni momento. Da qui per esempio scopriamo che la sigla “SLS” (LaurilSolfato di Sodio) può essere presente in molti prodotti per il corpo come dentrifici, shampoo, schiuma da barba, ed indica il tensioattivo chimico più aggressivo per la pelle.
“Il rifiuto spesso è quello dentro, e non fuori”. Per esempio “i petrolati (cioè gli scarti delle raffinerie) che ci mettiamo addosso” sotto il nome di Mineral oil, Petrolatum, Paraffinum liquidum, Vaselin, Vaselina… In generale il consiglio è orientarsi a una “spesa più locale e solidale” che non è vero che debba essere per forza più costosa, hipster, o da vip. Costa quella “bio” che, appunto, propone il supermercato. Qui invece si parla di tornare al mercato e al negozio sotto casa. E se proprio volete una cosa introvabile, è d’obbligo sfruttare le grandi potenzialità della rete.
Il Rapporto Ispra 2018 sugli sprechi alimentari dice che anche questo tema è “un obiettivo di sostenibilità di importanza strategica poiché, se correttamente indirizzato, può contribuire a risolvere diversi temi critici che l’umanità si trova ad affrontare: i cambiamenti climatici, la sicurezza alimentare, la tutela delle risorse naturali (acqua, suolo e biodiversità in primis), lo sviluppo e economico e il benessere sociale”. E le nostre scelte quotidiane, checché ci sembrino piccole, si accompagnano a tutto questo, “migliorando tantissimo” le scelte globali, perché il loro peso è tutt’altro che superfluo: “Anche 1 euro in più o in meno cambia tutto per questi marchi. Se li compriamo, gli diciamo che fanno bene il loro lavoro. Ma spesso non è vero. Ci siamo abituati a fidarci del marchio, ma io mi fido delle persone”. Una nuova vecchia idea che si sta finalmente facendo spazio, dal singolo all’impresa, dal Comune allo Stato, e il coronavirus, in tutta la sua bruttura, almeno ci sta aiutando ad andare avanti in questo senso, piuttosto che tornare indietro, con una necessità e una voglia sempre più impellenti.