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Streghe d’oriente e garofani rosa, il Giappone ripartì dallo sport femminile

(… segue dalla settimana scorsa “Sport ed emancipazione, se la vittoria trascende il singolo“)

Dire che il Giappone debba ricostruire la propria società, economia e soprattutto la propria immagine dopo la Seconda Guerra Mondiale è riduttivo.

Grazie ai legami con gli (o imposti dagli) Stati Uniti, in pochi anni l’arcipelago asiatico arriva ad essere la seconda economia del pianeta – anche perché zio Sam non può lasciare l’estremo oriente al nemico comunista, che già ha Cina, Corea del Nord e parte del sud-est asiatico. Un’ulteriore opportunità per stare in vetrina è lo sport, aspetto fondante della cultura nipponica specialmente per quanto riguarda le discipline tradizionali come arti marziali e sumo.

Tokyo aveva ottenuto le Olimpiadi 1940, ovviamente non disputate per cause di forza maggiore, e in quanto Paese aggressore se le vede anche togliere alla ripresa – le prime postbelliche si terranno a Londra nel 1948. Ma si rifarà nel 1964. In quanto Paese ospitante, il Giappone può scegliere uno sport da aggiungere alla manifestazione e opta per il judo, convinto di primeggiare.

geesink kaminaga olimpiadi tokyo 64
Kaminaga contro Geesink nella finale di judo delle Olimpiadi Tokyo 1964

Il loro elemento di spicco, Akio Kaminaga, però non ha fatto i conti con un ragazzone nato ad Utrecht, Olanda, Anton Geesink, che gli porta via quasi 20 cm di altezza e quasi 20 kg di peso. La disparità fisica non viene annullata dalla tecnica e l’Olanda vince l’oro, per il Giappone è un disonore paragonabile a quello del Brasile calcistico del 1950.

Kaminaga viene fatto guardare a vista da amici e parenti per evitare che si suicidi, misura non troppo eccessiva perché altri due atleti (maratona e ostacoli) si sono tolti la vita, nonostante il Bushido (il codice etico) non sia più formalmente in vigore dalla restaurazione Meiji di fine Ottocento.

Ma dove il singolo aveva fallito (ammesso che il secondo posto sia un fallimento), il collettivo si era preso la sua rivalsa, ovviando con un’organizzazione impensabile altrove all’innegabile deficit di corporatura, che in alcuni sport ha la sua rilevanza.

Uno di questi è la pallavolo femminile, che a Tokyo 1964 è alla sua prima apparizione olimpica, proprio come il judo. Le giapponesi sono già campioni del mondo 1962 e lo saranno ancora in futuro. Con un piano studiato dai vertici e messo in atto da una “mente diabolica”, ora è caccia grossa: le Olimpiadi, che hanno molta più risonanza a livello globale e si disputano pure in casa propria.

streghe d'oriente, nazionale femminile di pallavolo olimpiadi 1964
Il “demonio” Hirofumi Daimatsue e le sue “streghe d’oriente”, campioni olimpiche a Tokyo ’64

La mente diabolica è quella di Hirofumi Daimatsu, detto “il demonio”, le sue allieve sono le “streghe d’oriente” (toyo no majo). Di fatto sono operaie, ma all’epoca le pallavoliste non sono professioniste. Per ottenere la squadra migliore possibile, viene fatta un’accurata selezione tra le dopolavoriste e le giocatrici più forti vengono raggruppate in un unico complesso industriale, vicino Osaka, per creare l’amalgama necessario.

I ritmi di allenamento imposti dal demonio Daimatsu sono ben oltre la denuncia sindacale. Dalle 8 alle 15 in fabbrica, dalle 15 alle 24 in palestra. La domenica non si lavora, quindi c’è ancora più tempo per allenarsi. Metodi di preparazione del genere saranno usati anche dalla Corea del Nord ai mondiali del 1966 – e l’Italia lo scoprirà a sue spese. Del resto l’eredità shintoista e confuciana di parte dell’Asia ha lasciato un forte senso di collettività al di sopra dell’individuo, che tornerà utile anche ai regimi comunisti.

Vita privata azzerata, ma per le streghe d’oriente è serie record di vittorie (250 e oltre, vuole la leggenda), interrotta solo nel 1966. Per capire la portata dell’evento in patria, la finale olimpica contro la favoritisima Unione Sovietica cattura due telespettatori su tre.

La vittoria ai mondiali femminili di calcio del 2011 ha qualche analogia con quella della pallavolo olimpica. Innanzitutto c’è la volontà dei vertici sportivi di far appassionare quante più ragazze possibile a una disciplina non particolarmente praticata e il primo passo deve essere il reclutamento dilettantistico. Ogni domenica mattina la multinazionale Nestlé sponsorizza, nelle pause pubblicitarie tra un anime e l’altro, dei tutorial sul calcio.

nadeshiko calcio femminile
Le nadeshiko vincono i mondiali di calcio femminile nel 2011

Ma c’è un altro aspetto in comune, la necessità di coesione nazionale in un momento difficile. Nel 1964 era la ripresa dalla guerra, nel 2011 c’è la tragedia di Fukushima. Quasi in 20 mila morti solo per gli effetti diretti dello tsunami, poi vanno aggiunte le conseguenze di lungo periodo, per le radiazioni nucleari della centrale colpita dal maremoto.

Nel frattempo la Nazionale femminile è arrivata terza in Coppa d’Asia e ha ottenuto la qualificazione per i mondiali in Germania. In rosa ci sono anche due dipendenti della TEPCO, la centrale di Fukushima. La squadra ha il soprannome nadeshiko, il tipico garofano rosa, più in generale metafora dell’ideale bellezza femminile nipponica.

Il nome affonda le radici nell’XI secolo, nell’opera letteraria Genji Monogatari (“Il racconto di Genji”), scritto dalla dama di corte Murasaki Shikibu e considerato il primo romanzo moderno e psicologico. Il termine nadeshiko era anche stato recuperato dalla retorica nazionalista della Seconda Guerra Mondiale, per indicare le mogli dei soldati. Ma ora è un’altra storia e bisogna riappropriarsi della parola.

Homare Sawa kimono miglior calciatrice FIFA 2011
Homare Sawa, miglior calciatrice 2011 secondo la FIFA, in kimono alla cerimonia di premiazione. Alla sua sinistra Lionel Messi

Fino a quel momento i mondiali erano stati appannaggio di Stati Uniti (2 vittorie) e nord Europa (Norvegia e due volte Germania). Ai quarti di finale le giapponesi fanno fuori proprio le padrone di casa e campioni in carica. In semifinale è un “facile” 3-1 alla Svezia, quindi arriva la partitissima contro le statunitensi. Vincono le nadeshiko ai rigori davanti a un tifoso di eccezione: Yoichi Takashi, creatore di Capitan Tsubasa, più noto in Italia come Holly e Benji.

Questa è stata l’unica nazionale di calcio asiatica, maschile e femminile, a vincere una competizione intercontinentale, orgoglio di un Paese che ha voluto includere anche le nadeshiko tra i motivi che hanno permesso di superare Fukushima, magari un gradino sotto l’immancabile famiglia imperiale, ci mancherebbe.

Quelle del 1964 e del 2011 sono due imprese sportive che partono dalla questione di genere ma finiscono per trascenderla, ottenendo un riscatto che, dalle squadre, si è esteso a tutto il Paese.


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