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Lo smart working non è “semplice” lavoro da casa

Le testimonianze “dal basso”, delle persone che si conoscono, sono sempre più “vere”, in termini di intenzioni. Sono voci che vanno oltre la semplice intervista, e sono la parte più “antropologica” di StereoType. In questo caso sono citazioni di “amici” in qualità di “lavoratori” (e viceversa) che stanno affrontando il “nuovo mondo” del lavoro in quarantena. Per molti lavorare da casa non era un’abitudine, anzi, è stata una costrizione a cui si sono dovuti abituare per forza, e anche velocemente. Così, perfino in “Fase 2”, continuano a sperimentare un senso di “reclusione” senza benefici o addirittura con meno benefici rispetto al classico “lavoro in ufficio”. Il tutto a causa del famigerato “smart working”. Ma la colpa non è sua, siamo noi (italiani) che gli diamo il significato sbagliato, e da lì tutto il resto a cascata…

Un esempio, probabilmente il migliore, di “remote working” ovvero “a distanza”, quel tipo di lavoro che cioè può essere svolto da “ovunque”, e non solo a casa, compresa una bella spiaggia come questa… al netto di durata batterie e connessioni wifi! Prima tecnologia “smart” per eccellenza, il wifi è il requisito di base che permette di sperimentare una sorta di “ubiquità“. Sperimentato negli anni ’70 (e intuito molto prima), è stato reso disponibile per la prima volta solo 20 anni fa… davvero pochi anni nella Storia dell’uomo, e di certo dobbiamo ancora abituarci a certe nuove “libertà” sia fisiche che mentali.  

In ballo ci sono almeno tre termini inglesi, ognuno con un significato ben diverso: remote working, home working e smart working, eppure in italiano risultano quasi come sinonimi. Remote working è il termine più generale che raccoglie gli altri due: in italiano si traduce come “telelavoro“, “lavoro da remoto” o “lavoro a distanza“, cioè un “lavoro prettamente intellettuale” che come tale può avvenire da “ovunque”: bar, librerie, biblioteche, spazi di coworking (mai tradotto in italiano, sarebbe “lavoro insieme”, “collaborativo”), uffici temporanei… per nominare i luoghi più comuni. Ma c’è chi, potendo, non disdegna neanche gli spazi aperti, tra parchi e giardini, spiagge, laghi, montagne… basta che ci sia un modo per ricaricare i propri device e una connessione wifi a disposizione. Ovviamente anche da casa. Che però a quel punto sarebbe meglio definire come home working.

Lo smart working invece è un nuovo termine, anche in inglese, che più o meno dal 2014 intende sottolineare le ulteriori possibilità che le nuove tecnologie danno al lavoro contemporaneo. Ci sono vari siti, anche in italiano, che per ovviare alla confusione sul tema stanno organizzando dei webinar, “seminari sul web”. Tra questi ce n’è uno che andrà in streaming in questi giorni ed è dedicato proprio ai “falsi miti”, partendo dalla legittima domanda: “Stiamo davvero facendo smart working?” In molti articoli invece si precisa che “lo smart working non è remote working, ma viceversa sì”: “nessun vincolo di orari, né in ufficio né da casa, perché a contare sono solo le perfomance” (ovvero le prestazioni). Il grave problema, non solo lessicale che abbiamo in Italia, invece fa sì che il “vecchio” lavoro in ufficio sia stato semplicemente trasferito a casa, o peggio, abbia semplicemente preso tutto il negativo del lavoro d’ufficio unendolo a tutto il negativo del lavoro da casa, senza quindi prendere alcuna caratteristica né “intelligente” né “agile“, così come in Italia andrebbe tradotto e concepito.

Le parole-chiave dello smart working: specifico, misurabile, raggiungibile, rilevante e con scadenza. E cioè come dovrebbe essere nella realtà…

Come sottolineano diversi amici, dal Nord al Sud, trasferiti dagli uffici alle loro abitazioni, spesso si richiede lo stesso numero di ore con relativa rigidità di orari e scadenze. E talvolta la situazione peggiora. Come racconta un’amica di Napoli: “Io sono a casa. Stiamo facendo a turno in ufficio una settimana a testa, ma per ora ne ho fatta solo una a Marzo e la prossima capiterà a fine Maggio. Gli orari non sono gli stessi, magari… Si lavora anche fino alle 20:00. Chiaramente senza straordinari e buoni pasto”. Tradotto in poche parole questo significa “uscire da casa: mai”. Ed è chiaro che, invece di dare il giusto equilibrio tra “flessibilità, produttività, mobilità, reattività, felicità, crescita” (i principi dello smart working), in Italia diventa solo una pratica insalubre sia per il fisico che per la mente.

Le mie giornate erano già particolarmente lunghe”, racconta un amico di Milano, ma adesso non finiscono mai. Sicuramente c’è un problema di prossimità che dilata i processi: prima, per discutere di un problema e trovare velocemente la soluzione, bastava che mi girassi con la sedia o andavo al desk dei colleghi, mentre adesso devo chiamarli al telefono. Ma il problema è anche che le procedure delle banche sono pensate per gente che lavora assieme anche fisicamente. Ci sono sere che decido di smettere di lavorare a mezzanotte, ma potrei tranquillamente andare avanti a lavorare per ore”.

Concordo. In ufficio sicuramente si fanno le cose più in fretta, e a casa si potrebbe anche non staccare mai”, commenta l’amica napoletana. Anche se bisogna dire che c’è chi la vede diversamente o ha dalla sua la famosa flessibilità che andrebbe garantita a tutti (e poi vive da solo, o quasi): “in ufficio era una continua distrazione di gente che ti chiama e ti chiede, a casa sono molto più concentrato e veloce, e sono io che decido come e quando”.

Per non parlare di chi si è visto imporre “ferie forzate”, a inizio quarantena. Racconta un’amica di Roma che lavora per un “servizio essenziale” quale la giustizia: “almeno non mi hanno levato la malattia, ma la situazione potrebbe cambiare, anche perché per ora non lavoriamo a pieno regime”. Dopo ferie e permessi è stata la volta degli ammortizzatori sociali: “in questo modo almeno non hanno fatto licenziamenti, ma di fatto hanno sospeso tutti. Io non ho lavorato per un mese, e le mie ferie hanno coperto solo 2 settimane. Adesso alterniamo turni fuori e lavoro da casa come facevamo prima, ma chiaramente ci sono le stesse persone con meno lavoro”. Il problema per lei non è lavorare da casa, era già abituata da tempo, anzi, è un ‘approccio misto’ che comunque apprezzava perché le permette di stare di più con suo figlio che è ancora piccolo, “ma il punto è che io già partivo con un contratto part time molto basso, quindi di fatto vivevo con gli straordinari che non posso più fare… ma chiedendo in giro (anche alla Cgil) pare sia una pratica comune, purtroppo, una sorta di escamotage che è comunque consentito”.

L’utilizzo delle ferie rientra infatti nel primo Dpcm dell’8 marzo in cui “si raccomanda ai datori di lavoro di promuovere la fruizione dei periodi di congedo ordinario e di ferie”, per un totale che è stato anche di 4 settimane per alcuni (fino al 3 aprile), e cioè “il totale esaurimento delle ferie annuali”. Ma questo è giusto? Certo che no, lo Stato dovrebbe garantire altri strumenti in casi di emergenza come quella del Covid19. Ma purtroppo anche dal Codice Civile (art. 2109) “il datore ha il potere di disporre delle ferie forzate secondo criteri di correttezza e buon senso”. Nello stesso Dpcm, comunque, la “raccomandazione” si “affianca all’invito a usufruire dello smart working“, praticamente mai sentito nominare prima. Se non in zone nordiche. Eppure anche questo è in legge in Italia dal 2017. La numero 81 che ne descrive le caratteristiche: “assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi. Ai lavoratori deve essere garantita, inoltre, la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai colleghi”.

Italia in ritardo? Secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, esso rappresenta ormai una realtà ben consolidata già dal 2017 che registra anche una certa “soddisfazione”… (l’infografica creata sulla base dei dati è di cwi.it)

Infine, c’è chi ha sempre lavorato da casa, anche prima della quarantena. Ma la differenza è sostanziale, perché non si parla di “dipendenti”, ma di persone che si sono messe in proprio o almeno possono davvero sfruttare le vere caratteristiche dello smart working, la libertà di gestire il proprio tempo e lavoro. Per queste persone, infatti, è cambiato poco o niente, anche se la tendenza è peggiorativa, visto che prima almeno c’era una città attiva “fuori”, in cui poter staccare, e soprattutto ritrovare la socialità che può mancare terribilmente durante la giornata. Racconta un amico di Trento: “il grosso problema del non avere un ufficio è proprio non avere un ufficio… ho passato anni senza orari prima di impormeli in modo autonomo. Alla fine cerco di gestire la cosa con sveglie e attività per ‘staccare’. Proprio come se fossi in ufficio”.

Anche noi di StereoType siamo nella medesima situazione da anni e abbiamo sempre trovato paradossale questo problema dell’auto-gestione. Come a dire: ‘adesso sei libero, finalmente sei tu il padrone del tuo tempo, sei tu che puoi decidere come, quando e quanto lavorare!” Eppure… non ne siamo capaci! Abituati fin da piccoli a essere diretti da altri, quando sei tu a decidere non sai più che pesci prendere, non sai darti lavoro da solo. Ma di sicuro la libertà ti conquista subito, talmente tanto che, soprattutto all’inizio, chiudi la giornata con la sensazione di non aver fatto abbastanza. Magari è vero, ti alzi più tardi della media delle persone che vanno in ufficio, e hai potuto fare molto altro in mezzo, ma di contro saresti capace di lavorare fino alle 2:00 di notte.

Per altri invece il problema non c’è:L’importante è capire in che fascia oraria rendi di più, il che può cambiare molto da persona a persona, e poi puntare solo a quella, dopodiché staccare no matter what“. Insomma da una parte sembra come necessario non farsi sedurre troppo dalla libertà e dall’altra è assolutamente vitale evitare qualsiasi sovraccarico, dandosi pochi compiti al giorno (metà giornata), ma molto chiari e soprattutto fattibili. Altrimenti la frustrazione ci accompagnerà per sempre rovinando la bellezza del resto, che è davvero tanta. Come le citate ‘sveglie’ che ti ricordano almeno di prendere un caffè. O farti un giro per sgranchirti le gambe, o magari fare la spesa. Una passeggiata. Quell’idea rimasta sospesa. Quei libri da sistemare (o da leggere). Quella persona che volevi vedere a pranzo…

Il “vero” smart work, una sorta di “terra di mezzo”, difficile da conquistare, tra quello che veramente “importa” (“voglio quello che faccio”, piuttosto diverso dal “faccio quello che voglio”) e il “lavorare sodo” (duramente, faticando) che è come si sta traducendo questo “lavoro agile” in un’Italia ancora impreparata a livello di nuova cultura aziendale e nuove tecnologie.

Per questo il lavoro remoto o da casa non andrebbe confuso con lo smart working. Chi lavora a distanza solitamente è un in-dipendente con tutti i lati positivi e negativi che questo comporta. “Quelli che sono arrivati adesso”, e lavorano tutti da casa, sono dipendenti di aziende spesso non preparate che non hanno potuto fare altro che delegare gli stessi compiti, o peggio, vista la disorganizzazione e tutte le difficoltà in più che si possono incontrare (convivenze, consumi, eventuali figli). Lasciando ai lavoratori ogni responsabilità senza contraccambiarli in libertà, senza pensare al contesto, e anche alcuni costi. Non bisogna sottovalutare, infatti, che una serie di voci di spesa (internet, riscaldamenti/climatizzatori, luci, pasti…), improvvisamente, sono diventate tutte a carico del lavoratore. Certo, almeno si risparmia sui costi dell’auto e i tempi (insalubri) di imbottigliamento nel traffico, e “in fondo anche per internet mi cambia poco, visto che oggi ti riversano di Giga a palate. Io per lavoro uso i dati del mio cellulare e il consumo non ha mai intaccato il mio uso personale”, come sottolineavano altri lavoratori da casa (in TV), creando forse una specie di controbilanciamento.

Insomma, l’Italia non era preparata come altri paesi dove lo smart working (insieme con la cultura del part time) già si operava in modo più diffuso. E questo di certo non aiuta. Ma è necessario trovare il modo di realizzarlo sul serio, piuttosto che fare finta, gravando solo sui lavoratori. Se hai vincoli esterni e una tecnologia che di fatto non aiuta a rendere il lavoro più “agile”, questo non è “smart working”, è far uscire di testa la gente. Dall’altra parte, se hai veramente modo di essere libero, bisognerebbe educare le persone a questa libertà. Un vero e proprio paradosso filosofico… come è possibile essere più liberi e “soffrirne”? Forse la schiavitù nella testa, nel senso più grande del termine, è la prima cosa che andrebbe combattuta.

L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi.
Erich Fromm

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