Oltre che della salute e dell’economia, durante la quarantena si è (in misura minore) parlato anche della tenuta mentale delle persone. Al netto di uno spettro di situazioni troppo ampio per essere ridotto a poche situazioni tipo, l’Ordine degli Psicologi ha sottolineato la necessità di crearsi nuove abitudini per mantenere un certo equilibrio, ridurre ansia e stress e prepararsi in qualche modo alla fase 2 (ma soprattutto 3, 4 , 5…), con il graduale ritorno a una (nuova?) “normalità”.
Il cambiamento, spesso, spaventa in condizioni più tranquille, figurarsi in una pandemia. Ma il cervello ha grande adattabilità, magari più sorprendente di quanto pensiamo. L’importante è tenere in mente che le reazioni non sono rispondenti allo stesso modo per tutti e che le statistiche, in casi come questi, possono dare un’idea generale ma essere facilmente disattese. Essere più lenti non deve quindi preoccupare.
Dagli anni ’50 si è diffuso un falso mito. Il chirurgo plastico Maxwell Maltz nota alcune curiose coincidenze nei suoi pazienti: sia chi subiva interventi correttivi, come al naso, che chi subiva amputazioni, impiegava tre settimane per abituarsi al nuovo aspetto o per smettere di sentire l’arto fantasma.
Notando che l’arco temporale valeva anche per le sue stesse nuove consuetudini, Maltz raccoglie la teoria nel libro Psicocibernetica, pubblicato nel 1960, volume che ispirerà il lavoro di molti motivatori mentali e sostenitori dell’auto-aiuto. Gli studi di Maltz sono limitati però a un ambiente ristretto, troppo aneddotico per assurgere a quadro attendibile.
La questione sui tempi dell’adattamento al cambiamento stimola comunque il lavoro degli psicologi, portando ad approfondimenti che vanno verso una visione più realistica.
Nel 2009 Philippa Lally, dello University College di Londra, pubblica una ricerca sulla rivista accademica European Journal of Social Psychology che triplica i tempi stimati da Maltz. Si legge nel riassunto che la Lally ha effettuato lo studio su 96 volontari, cui è stato sottoposto un cambiamento in una qualsiasi attività giornaliera per almeno dodici settimane. Il campione ha poi, quotidianamente e in autonomia, riportato i dati, che per 82 di loro sono risultati sufficienti ai fini di un’analisi più esaustiva.
Il modello di stima per regressione non lineare – cioè senza un metodo generale che determini i parametri – era applicabile per 62 individui e in maniera particolarmente soddisfacente per 39 di loro. L’oscillazione dell’automatizzazione del comportamento è stata molto ampia, da 18 a 254 giorni, indicando quindi una variazione considerevole delle tempistiche, ma con una concentrazione più cospicua nell’ordine dei due mesi (per l’esattezza 66 giorni). Comunque non senza riscontrare difficoltà ed errori nel percorso.
Lo scoraggiamento può essere inserito nello schema delle tre fasi ideato da Tom Bartow:
- l’entusiastica “luna di miele”
- il conflittuale confronto con una realtà non più idealizzata
- la “seconda natura”, in cui l’adattamento è attuato
Un successivo studio del maggio 2014, coordinato dal direttore del Laboratorio di Neuroscienze Cognitive di Parigi Etienne Koechlin e pubblicato dalla rivista accademica Science, ha individuato nella corteccia prefrontale del cervello il luogo dell’adattabilità al cambiamento. Ma, si legge nel riassunto dello studio, “poco ancora si sa dell’architettura del processo”.
Usando modellazione computazionale e tecnologie di neuroimmagine, si è osservato che la corteccia prefrontale ha due tracce interferenziali concorrenti. Una, che va dalla zona ventromediale alla dorsomediale, trae conclusioni probabilistiche sull’affidabilità della strategia di comportamento in atto e media tra l’adattamento di questa con l’esplorazione di nuove ipotesi, attingendo dalla memoria di lungo termine. L’altra, che va dalla zona laterale a quella polare, fa deduzioni su due o tre strategie alternative e media tra queste e ulteriori opzioni possibili. Le due tracce interagiscono e, assieme allo striato, realizzano test ipotetici per arrivare all’accettazione o al rifiuto dei piani creati.
Dopo l’adattamento per cercare di superare (più o meno) indenni la quarantena, saremo chiamati a cambiamenti sostanziali anche per il dopo. Sia nel breve periodo, riabituandoci a una socialità che per un certo lasso di tempo sarà necessariamente diversa, che nel lungo, ripensando al modello di società che intendiamo portare avanti. Possibilmente eliminando tanto quei fattori che hanno facilitato (o faciliteranno altre) zoonosi (deforestazione, traffico illegale di specie, wet market), quanto quelli che, oltre alle problematiche più note, hanno anche favorito la resistenza e la circolazione del virus (inquinamento atmosferico, emissioni…).
Per citare lo scambio di battute tra John Ruth (Kurt Russell) e Marquis Warren (Samuel L. Jackson) nel film di Quentin Tarantino The Hateful Eight, “Nessuno ha detto che questo lavoro debba essere facile”. “Ma nessuno ha detto che debba essere così difficile”.
Linkin Park, Breaking the habit