In tempi di pandemia globale e di quarantena forzata si sentono spesso fare paralleli con le situazioni di guerra. Se da una parte si possono riscontrare indubbie analogie tra le due circostanze di emergenza, dall’altra psicologia, strategia e sistema sociale giocano un ruolo diametralmente opposto. Anche perché il virus SARS-CoV-2, meglio noto col generico nome di coronavirus, e la relativa malattia COVID-19 non agisce coi pregi e difetti del bravo soldato.
Aprendo una breve parentesi, anche parlare di “guerra” è in realtà molto vago. Le guerre sul campo di battaglia andate avanti per millenni sono state ben diverse dalle guerre di trincea che a loro volta sono tutt’altra cosa rispetto alle più recenti guerre e alla lotta al terrorismo internazionale, diventata predominante dopo l’11 settembre 2001.
Sicuramente stare davanti alla TV o qualunque altro mezzo di informazione per sentire il quotidiano bollettino della Protezione Civile sui morti e i contagiati – per fortuna ci sono anche i guariti – richiama atmosfere che pensavamo ormai dimenticate, almeno nel privilegiato Occidente inteso come Europa, nord America e Australia (più parte dell’Asia orientale).
Ma ci sono altre similitudini tra pandemia e guerra. L’incertezza del futuro; la paura che le risorse comincino a scarseggiare; l’idea che stiamo vivendo un momento spartiacque tra il “prima” e un “dopo” che probabilmente sarà diverso, bisognerà adeguarsi a dei cambiamenti e qualcuno magari sarà pure positivo; la riconversione industriale di alcune attività verso la produzione di materiale sanitario; la voglia della popolazione di stare unita, compatta, ormai la distinzione ideologica precedente quasi non conta più (come per il Comitato di Liberazione Nazionale), l’importante è arrivare tutti insieme alla meta.
Se gli interrogativi sul presente e sulla futura “ricostruzione” possono anche essere gli stessi di un dopoguerra, azione e strategia, come detto, vanno in senso opposto.
Durante la Prima Guerra Mondiale cominciò a diventare centrale la figura dello psicologo, anche se dell’importanza dello stato mentale delle truppe si sapeva da millenni. La Grande Guerra vide però l’impiego di eserciti di non professionisti, coscritti soprattutto provenienti dal mondo contadino e operaio. Scrisse qualche anno fa Dario De Santis, del Dipartimento di psicologia dell’università di Milano-Bicocca, che il soldato all’epoca appariva come “l’esasperazione tragica dell’uomo moderno”. I metodi organizzativi delle truppe potevano essere riusati per qualsiasi situazione gerarchica di massa, dalle grandi aziende alle scuole.
Sconfitte come Caporetto non erano solo da attribuire all’inferiorità bellica, ma anche e soprattutto al morale, alla psicologia delle armate. Alcuni aspetti possono essere validi anche per il contenimento del virus, ovvero grande disciplina e forte lavoro sullo stato mentale. Come il soldato non poteva permettersi di impazzire in trincea, così dobbiamo preservarci nelle settimane di isolamento – anche se si tratta più di combattere la noia e non farsi sopraffare dall’angoscia del domani, specie per chi non ha certezze lavorative.
Sul fronte opposto però non ci sono altri umani, che bene o male ragionano allo stesso modo e che quindi possono esaltarsi per le vittorie come deprimersi alle prime sconfitte. Sul presunto fronte c’è un virus, che si comporta tutto sommato in maniera biologicamente lineare, pur tenendo conto delle mutazioni genetiche grazie a cui si adatta all’ambiente.
Inutile attingere ai grandi classici. Non serve leggersi L’arte della guerra di Sun Tzu, opera immortale scritta oltre 2500 anni fa e che tuttora influenza vari campi, come quello economico e degli affari, inclusa la molto più recente teoria dei giochi. Anche se per certi tratti L’arte della guerra sembra applicabile al coronavirus, ad esempio in termini di pianificazione della vittoria.
Né serve ispirarsi a Machiavelli, Dell’arte della guerra, o alle prove di forza politico-militare teorizzate da Karl von Clausewitz.
Il premier britannico Boris Johnson, oltre a citare “l’ora più buia” di Churchilliana memoria, ha espressamente dichiarato la necessità di un “governo di guerra” quando ha capito che il “business as usual”, il fare finta di niente, non sarebbe servito. Anzi, sarebbe stato controproducente.
Se in guerra servono azione e forza di spirito, perché appunto l’aspetto psicologico può risultare decisivo, è esattamente l’opposto in pandemia, dove personale sanitario a parte, è meglio che NON si faccia nulla. Mentre avere il morale alto o basso non cambia minimamente le possibilità di contagio.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito questa crisi come peggiore del terrorismo, che poi è l’unica forma di guerra che stiamo vedendo sul suolo occidentale da qualche decennio. Solo che si tratta di due tragedie non comparabili.
Si dice sempre che non bisogna negoziare con i terroristi, che bisogna far vedere come la vita continui normalmente senza paura, che le abitudini e le libertà non siano scalfite, dimostrando un coraggio che in qualche misura possa anche abbattere moralmente il nemico.
Qui non si tratta di scendere a patti col virus, la vita non può proprio andare avanti come se nulla fosse e molte abitudini dovranno essere riviste, specie se inquinamento e cambiamenti climatici, come sembra ormai molto probabile, siano assieme al traffico illegale di animali selvatici agenti in grado di aumentare le epidemie anche nel futuro prossimo. Riunirsi vestiti da puffi (per dirne una) non indica il coraggio di sfidare il virus, come fosse un terrorista qualsiasi. È solo incoscienza.
La scrittrice statunitense Susan Sontag nel 1978 pubblicò Malattia come metafora, il cancro e la sua mitologia, in cui invita a uscire dalla retorica della malattia come metafora di una guerra, vale per il cancro, per la tubercolosi come per l’HIV (tema che affrontò dieci anni più tardi) e ora la stessa lettura si può dare per il COVID-19.
“La guerra è una delle poche attività che le persone non devono vedere come realistica”, scriveva la Sontag nel 1989, “cioè con un occhio alle spese e ai risultati pratici. In una guerra totale le spese sono totali, imprudenti. La guerra è definita come un’emergenza in cui nessun sacrificio è eccessivo”. In questo transfer, far passare la malattia come “guerra” facilita l’idea dell’epidemia come situazione del tutto atipica, eliminando la considerazione per gli aspetti strutturali della società. Il che, a pensarci, è molto più inquietante.