Nel 2002 Enzo Biagi, da tifoso del Bologna di vecchia data che ne aveva viste tante, si chiede più o meno: “che fine ha fatto Arpad Weisz? Era molto bravo, ma anche ebreo, chissà com’è finito”. Nel 1938 Weisz aveva aggiunto alla sua bacheca il terzo scudetto da allenatore, il secondo con gli emiliani, arrivando ad essere il primo a vincere il campionato italiano con due squadre diverse.
Il quesito viene raccolto da un altro giornalista bolognese, Matteo Marani, che decide di mettersi sulle tracce di un grande personaggio del calcio anni ’20 e ’30. Le notizie su Weisz si fermano a un certo punto, praticamente alla promulgazione delle leggi razziali firmate da Mussolini il 7 settembre 1938, che impongono agli ebrei stranieri presenti in Italia da dopo il 1919 di lasciare il Paese. In quel momento Weisz è all’apice della carriera.
Marani cerca di risalire ad Arpad Weisz tramite il figlio Roberto, che fino al 1937 poteva andare a scuola. Solo che nei registri il cognome viene “italianizzato” in Veisz, perché la “w” non è nell’alfabeto – non che Veisz suoni poi così nostrano. Trova Roberto e i compagni di classe, tra cui tal Giovanni Savini, il suo migliore amico, da qui riuscirà mano a mano a ricostruire gli eventi della vita di Arpad Weisz.
Partiamo dalle cose note da sempre. Arpad Weisz nasce a Solt, in Ungheria, nel 1896. A inizio Novecento gli inglesi innovano il gioco del calcio ed esportano le nuove regole e le tattiche lungo due fiumi dove hanno forti interessi commerciali: il Río de la Plata e il Danubio. I magiari sono tra i più ricettivi nell’assimilare e addirittura migliorare tutti gli aspetti del gioco. Ad esempio Béla Guttmann negli anni ’50 porterà il suo rivoluzionario 4-2-4 (ora molto diffuso) in Brasile, dandogli quel minimo di organizzazione che farà vincere tantissimo i sudamericani.
Un ruolo centrale lo svolge la comunità ebraica di Budapest, che da oltre un secolo, grazie agli editti di tolleranza promulgati tra il 1781 e il 1785 da Giuseppe II d’Austria, ha garantite libertà di culto e proprietà privata. Ha anche una squadra di riferimento, l’MTK Budapest, contrapposta al Ferencváros della borghesia conservatrice. Poi tra gli anni ’10 e gli anni ’20 c’è un’altra squadra ricca di talenti come Weisz, che prima di essere un ottimo allenatore è stato un bravo giocatore, e il già citato Guttmann: è il Törekvés, che vuol dire “aspirazione, ambizione”, ma in una sua accezione anche “sogno ad occhi aperti”.
La Nazionale, fortissima, si regge sull’asse dei giocatori ebrei. Sarebbero i favoriti alle Olimpiadi di Parigi del 1924, ma perdono clamorosamente 3-0 con il modesto Egitto. Si fanno battere in segno di protesta, perché in Ungheria ora tira una brutta aria per gli ebrei. Al potere c’è Miklós Horthy, fortemente antisemita, che inserisce i suoi uomini nella federazione calcistica, praticamente per fare quello che oggi sarebbe ben oltre il mobbing. Come mandare la squadra in ritiro in un albergo abitato più da topi che da inquilini umani.
Tra la politica interna e un affronto del genere, nessun giocatore può permettersi di tornare in patria senza conseguenze. Arpad Weisz viene in Italia, dove già era stato una volta ma in tutt’altre circostanze: come prigioniero al confine durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo un anno a Padova lo nota l’Inter, Ambrosiana sotto il fascismo perché il nome “Internazionale” poco si addice all’ideologia di regime. Trascorre un anno di stacco in Uruguay, dove all’epoca si trova il meglio del calcio mondiale, studia da allenatore e poi torna a Milano, alla guida della squadra ad appena 30 anni.
Scopre Giuseppe Meazza, cui ora è dedicato lo stadio, e lo fa esordire giovanissimo. Tanto che i tifosi nel vederlo la prima volta diranno “ora fanno giocare anche i balilla”, di fatto affibbiandogli quel soprannome che dunque non ha nulla a che vedere con adesioni o meno di Meazza al fascismo – che ne sfrutterà l’immagine, questo sì, ma è un classico dei regimi con lo sport. Soprattutto vince lo scudetto 1930.
Poi va a Bari e lo salva dalla retrocessione, quindi si trasferisce a Bologna, dove nel frattempo si sposa e fa due figli, Roberto e Clara (battezzandoli), insomma è pienamente inserito nel contesto locale. In Emilia torna a vincere, due scudetti nel 1936 e 1937, interrompendo la serie di cinque vittorie di fila della Juventus. Nel 1937 fa trionfare i rossoblu anche nel torneo dell’Expo di Parigi, dove partecipano le migliori squadre del continente. Batte 4-1 in finale il favorito Chelsea, insomma è sul tetto d’Europa. Vive insieme alla città il suo törekvés, il suo sogno ad occhi aperti.
Le leggi razziali però sono alle porte. Weisz deve lasciare il Paese e la stessa sorte tocca alla moglie Ilona, italianizzata in Elena, ma anche ai figli, che pure sono nati in Italia e sono ufficialmente cristiani. I posti dove rifugiarsi sono pochi, almeno vicino all’Italia. L’Ungheria è da escludere, la Spagna ha Franco, la Germania neanche a parlarne, c’è la Francia.
I Weisz vanno a Parigi, città carica di significati per lui. Ci ha appena vinto l’Expo e ci aveva perso (volontariamente) le Olimpiadi una decina di anni prima. Il miglior allenatore d’Europa si deve accontentare di un ingaggio in serie B francese, fino alla chiamata del Dordrecht, serie A olandese, squadretta di studenti che Weisz farà arrivare addirittura quinta.
La scelta, anche se dettata dall’esigenza di tornare ad allenare, dall’incapacità di stare lontani da quel mondo, è strategicamente pessima. La Germania ha il fiato sul collo dell’Olanda e non ha con essa barriere naturali, infatti nel 1940 i nazisti impiegano una sola settimana a piegare le resistenze dei Paesi Bassi.
Il cappotto con la stella a sei punte gialla non gli concede spazi pubblici, la “j” sul passaporto (sta per juden) nemmeno di scappare. Iniziano i rastrellamenti, anche grazie all’attività delatoria dei collaborazionisti, che ad esempio segnalano l’abitazione di Anna Frank.
Per una persona famosa come Weisz non c’è nemmeno bisogno di nessuna soffiata, lo conoscono tutti e lo prelevano, con la famiglia, nel 1942. Li portano a Westerbork, nel campo di concentramento olandese dove tra gli altri, per restare in tema, vengono convogliati anche molti giocatori dell’Ajax, la squadra degli ebrei di Amsterdam.
Quello è solo un luogo di transito, c’è infatti una bella (brutta) differenza tra campi di concentramento e campi di sterminio. Ma la “soluzione finale” dei nazisti è iniziata e da Westerbork partono in continuazione treni per i campi di sterminio. Il 2 ottobre 1942 tocca ai Weisz, destinazione Polonia, Auschwitz. Il 7 Ilona, Roberto e Clara vengono condotti nelle camere a gas, per Arpad invece non è ancora il momento. Viene prima portato nei campi di lavoro in Alta Slesia, poi di nuovo ad Auschwitz dove troverà la morte nella stessa maniera dei suoi cari il 31 gennaio 1944. Ma il törekvés era svanito da tempo, Primo Levi ha descritto perfettamente lo svuotamento mentale e psicologico provocato da quei luoghi.
Nei campi di sterminio persero la vita, almeno secondo quanto ricostruito dal processo di Norimberga, 5,7 milioni di ebrei, circa i ¾ del totale europeo, 8 mila di questi erano italiani. Il totale delle vittime aumenta a dismisura, forse fino a 10 milioni di persone, considerando tutte le altre “categorie” che dovevano essere soppresse: dissidenti, criminali comuni, prigionieri di guerra, slavi e polacchi, rom e sinti, omosessuali, prostitute, senza tetto, disabili, massoni, testimoni di Geova, pentecostali.
Grazie al lavoro di Marani questa storia è stata riscoperta e Arpad Weisz è, se non altro, uscito da un oblio cui era stato costretto dalle aberrazioni della Storia (quella con la S maiuscola) del primo Novecento.