Stati Uniti e Iran (e Persia prima del 1979) hanno sempre avuto rapporti altalenanti (eufemismo), che hanno oscillato dall’alleanza a crisi gravissime, passando per momenti di distensione e negoziati.
Primo evento chiave risale al 1953, quando servizi segreti statunitensi e britannici collaborano al rovesciamento del primo ministro persiano Mohammad Mossadeq (operazione Ajax), che aveva deciso di nazionalizzare la produzione di petrolio, rompendo il contratto di concessioni alla Anglo-Iranian Company firmato dal governo nel 1933. Mossadeq aveva fatto deporre lo Scià Mohammad Reza Pahlavi, perché poteva contare su una trasversale opposizione al monarca. Ma è proprio in questo periodo che germoglia il radicalismo religioso sciita.
Dopo il breve esilio a Roma, Reza Pahlavi torna in patria grazie all’imposizione occidentale, attuando un periodo di riforme e tornando ad esportare petrolio, in fondo l’economia persiana si reggeva prevalentemente sugli idrocarburi. L’epoca dello Scià è sicuramente da considerarsi più progressista di quella attuale, grazie all’introduzione del divorzio, del suffragio femminile, di politiche agricole e di partecipazione degli operai agli utili dell’industria, attirandosi ancora di più le antipatie del clero.
Ma nonostante l’immagine di “monarca illuminato” che Reza Pahlavi cerca di darsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, è pur sempre un accentratore politico, incline alla repressione del dissenso. Ma finché vende il prezioso petrolio va tutto bene. Gli Stati Uniti sono un partner commerciale privilegiato, tuttavia inaffidabile.
Il presidente Jimmy Carter va anche a Teheran per festeggiare l’arrivo del 1978 e la foto del brindisi tra i due capi di Stato è l’ultima goccia (di champagne): un musulmano che beve alcool, per i fondamentalisti è inaccettabile.
Le proteste nel Paese sono diffuse, complice la crisi economica dovuta alla crisi energetica, che fa crollare le esportazioni. Ruhollah Khomeini aveva già tentato un colpo di Stato nel 1963, ma fallisce e viene esiliato, vivrà prima in Turchia e poi a Parigi. I seguaci si stanno ora riorganizzando, ma tanto lo Scià può contare sugli amici statunitensi. Che invece si girano dall’altra parte, perché lo Scià ha chiuso i rubinetti di oro nero. Magari il nuovo governo sarà più favorevole…
Invece Khomeini, tornato trionfalmente da Parigi l’11 febbraio 1979, è per la nazionalizzazione delle risorse e animato da un filo di antiamericanismo. Già a novembre non fa nulla per evitare l’azione dei Pasdaran – i guardiani della Rivoluzione che ha instaurato la Repubblica Islamica dell’Iran sostituendo lo storico nome Persia – che irrompono nell’ambasciata degli Stati Uniti tenendo in ostaggio 52 membri dello staff per oltre un anno. Il fallimento del blitz voluto da Carter per liberare i prigionieri contribuirà alla sua mancata rielezione.
Praticamente appena insediato, il nuovo presidente Ronald Reagan festeggia il rilascio degli ostaggi, costato lo sblocco dei fondi iraniani nelle banche americane e l’affermazione del principio di non ingerenza. Praticamente mai attuato.
Perché nel frattempo è anche scoppiata la guerra tra Iran e Iraq per mere questioni di confini lungo lo Shatt al-‘Arab, non riconosciuti dai nuovi leader dei due Paesi: Khomeini e Saddam Hussein. Formalmente, l’amministrazione Reagan non ha mai armato l’Iraq, ma solo venduto materiale chimico, elicotteri e autocarri pesanti. Chi avrebbe mai immaginato che un Paese in guerra avrebbe destinato tutto all’uso bellico?
Ad armare l’Iran invece due insospettabili: Israele e… Stati Uniti! Sempre l’amministrazione Reagan decide di vendere segretamente armi all’Iran per liberare alcuni ostaggi sequestrati dalle milizie di Hezbollah – sciite e filoiraniane – in Libano. Ricavi che saranno girati ai controrivoluzionari del Nicaragua, i Contras, che combattevano i sandinisti socialisti compiendo massacri e attacchi terroristici nel Paese. Gli altri proventi dei Contras arrivano dal traffico di droga, fatta entrare negli Stati Uniti con il benestare della CIA.
Nel 1998 invece Stati Uniti e Iran sono protagonisti di un bel momento di sport, quando le due squadre si sfidano ai mondiali di calcio in Francia – del resto che lo sport fosse utile ai rapporti diplomatici lo si era scoperto grazie al ping pong.
L’Iran si è qualificato dopo venti anni di assenza battendo a sorpresa la favorita Australia, che si fa recuperare due gol in casa. Il calcio non piace agli Ayatollah, ma nemmeno il regime può nulla contro una passione popolare dirompente e certe volte anche lo sport è politica a tutti gli effetti. Al calcio infatti è legata una delle importanti battaglie per la parità delle donne, grandi tifose ma bandite dagli stadi a lungo tempo – Jafar Panahi nel 2006 gira il film Offside su un gruppo di ragazze che si traveste da uomo pur di assistere a una partita della Nazionale.
E la qualificazione a Francia ’98 non fa eccezione, anzi. Le scene di giubilo per le strade di Teheran e del Paese hanno dell’incredibile, con le donne mescolate agli uomini a ballare sulle camionette dei guardiani della Rivoluzione, mentre la musica di “satana” viene sparata a tutto volume dagli impianti stereo.
Gli dei del calcio mettono lo zampino nei sorteggi, nel girone con Germania e Jugoslavia ci sono gli acerrimi nemici Iran e USA. Ma va tutto liscio, giocatori e federazioni sportive lanciano un messaggio di “normalità” e gli iraniani regalano perfino dei fiori ai colleghi e rivali solo sul campo per novanta minuti. L’Iran vince 2-1, ai fini della qualificazione non serve a nulla – vanno a casa tanto loro quanto gli Stati Uniti – ma lo storico trionfo basta per far riversare ancora una volta fiumi di gente (e alcool) per le strade.
Quello che lo sport crea, George W. Bush lo distrugge. Non che grazie a una partita decenni di tensione si sarebbero potuti cancellare di colpo, ma se ne sarebbe anche potuto approfittare per fare dei passi avanti. Invece Bush figlio non tarda, nel 2002, a inserire Iran (e Corea del Nord) ne “l’asse del Male”.
Non che i due Paesi fossero villaggi turistici, ma visto che si era appena iniziato a conoscere realmente a livello internazionale il terrorismo fondamentalista islamico, buttare tutto in un unico calderone non è proprio il massimo della strategia e della comunicazione politica.
Il resto è cronaca più o meno recente, dai lunghissimi negoziati su cosa l’Iran possa fare con gli studi sull’energia nucleare al raid firmato Donald Trump che ha ucciso il generale Qasem Soleimani.
In meno di 70 anni il ribaltarsi dei rapporti, la tessitura di trame contorte, la volubilità degli attori in gioco ha tenuto e continua a tenere il mondo in apprensione. Ma ha anche evidenziato (in diverse occasioni) la validità del legame causa-effetto, così come l’assurdità del mantenere posizioni rigide a favore dell’una o dell’altra parte, a seconda dell’ideologia o del nazionalismo.