Così anteprima che ancora non ha un titolo. Francesco De Carlo ha presentato a Roma, San Lorenzo, locale Le Mura, il suo nuovo spettacolo di stand up comedy – aperto dal proverbiale brio di Stefano Rapone.
Dopo i successi di Cose di questo mondo su Netflix – uno dei primi tre stand up comedian italiani insieme a Edoardo Ferrario e Saverio Raimondo a finire sulla piattaforma di distribuzione digitale – e di Tutta colpa della Brexit, quattro puntate andate in onda su Rai3 che raccontano la difficile scalata ai palchi britannici, De Carlo torna nel quartiere dove ha mosso i primi passi da comico. “Ma ora è tutto diverso”, dice, non come ai vecchi tempi dove si esibiva in “piccoli posti, bui, con cinquanta spettatori”… (ok, questa si può capire solo essendo stati almeno una volta a Le Mura).
Francesco De Carlo racconta le sue contraddizioni, che spesso sono anche quelle dei colleghi. Essere narcisisti e schivi, che allo stesso tempo cercano e vogliono evitare l’attenzione degli altri; pieni di sé e insicuri; paurosi e ambiziosi. E soprattutto la costante sensazione di essere sospesi tra due mondi, trovandosi fuori posto in entrambi.
Un limbo che nel suo caso viene dall’essere cresciuti in una zona di “confine”, la Portuense, che divide la popolare Magliana dalla più residenziale Monteverde. Da una parte la comitiva di “coatti” immersa in un tessuto che tende all’illegalità, dall’altra la scuola dalle suore. E quello che veniva imparato in un contesto non era assolutamente utile nell’altro.
Sentire stretta la realtà di quartiere è stata la spinta per ampliare i propri orizzonti. Così De Carlo è arrivato ad esibirsi non solo in Italia e in Gran Bretagna, ma praticamente in tutto il mondo, tanta Europa ma anche Sudafrica e Corea del Sud.
La scrittura del nuovo pezzo strizza l’occhio alla sceneggiatura cinematografica. Di solito nell’ora/ora e mezza di spettacolo i comici raccontano vari episodi della propria vita non necessariamente collegati tra loro, in cui magari si inseriscono considerazioni più generali sulla società.
Francesco De Carlo propone invece un racconto unitario, in cui la narrazione si sviluppa in due sole giornate, che vedono lo scontro inatteso tra due mondi. Quello vissuto fino ai vent’anni, del baretto, delle panchine contese al parco, delle prove nei garage di una band (I Folli Portuensi) che tanto non si formerà mai, tra risse, generazioni di boss di quartiere e furti di motorini.
E quello dello spettacolo, con feste “radical chic”, dove tutti hanno due lavori – uno professionale e uno artistico – e usano l’aggettivo dimostrativo “questo” a sproposito (“questo gruppo musicale, con questo percussionista senegalese…” da leggere con rigorosa intonazione snob!).
Il nuovo spettacolo di De Carlo, al di là di far sorgere il dubbio su quanto ci sia di vero e quanto sia romanzato, poco importa, sfrutta la catarsi della comicità per farci pensare alla crescita personale, alla maturazione (si spera) rispetto all’adolescenza, a quanto siamo fuggiti (o si cerchi di fare) dall’immobilismo di molte piccole realtà. Senza per questo snaturarsi, rinnegare i nostri valori e ideali, insomma cercando un equilibrio tra il non essere più quelli delle comitive della stessa panchina, ma nemmeno imborghesendosi troppo o comunque nella maniera sbagliata.
E, cosa non irrilevante in uno spettacolo comico, si ride molto. Una cura per le nostre incertezze e sospensioni, che capiamo essere condivise da chi, come Francesco De Carlo, non si accontenta di ruoli statici. Divertirsi sentendosi un po’ meno soli è già qualcosa.