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Un mondo senza plastica è (im)possibile

Un mondo senza plastica è impossibile”. Ad affermarlo è Antonio Protopapa, direttore di Corepla, uno dei tanti consorzi nazionali no profit “per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica”. Ma bisogna fare attenzione, e non solo perché l’affermazione viene da chi con la plastica ci lavora. Anche sul tema plastica gli stereotipi sono moltissimi.

Anzitutto, quando pensiamo alla plastica la mente ci va subito alle famigerate bottiglie e bottigliette, ma bisogna partire dal presupposto che la plastica è ovunque, diffusa in ogni settore, dall’edilizia agli alimenti, dall’agricoltura al risparmio energetico ecc ecc. Non si può dunque eliminare con un colpo di spugna come molti vorrebbero. Basti pensare che “in una sola automobile ci sono 150-200 kg di plastica” e che il settore delle costruzioni è quello dove viene più usata, anche se non è di certo il primo materiale che venga in mente quando si pensa all’edilizia… E poi il problema non è tanto la plastica, quanto le plastiche: “ne esistono almeno sette tipi” (dunque il Pet, o Polietilene tereftalato è solo la più nota) e i numeri sono questi: “360 milioni di tonnellate di plastica presente nel mondo nel 2018 con trend in crescita che diventa particolarmente alto, al 3,5%, nei Paesi in via di sviluppo”.

Questa invece era la bellissima installazione di Greenpeace fatta a Roma (luglio 2018). Qui è più facile capire che siano balene finte…

I Paesi che non perseguono gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono in questo senso lo scoglio più importante da superare. (Tra parentesi da “Terzo mondo” a oggi si son fatti bei passi avanti, ma anche la definizione di “Paesi in via di sviluppo” non è più accettata). Si dice che, così come quelli che già sono sul cammino della sostenibilità abbiano “esagerato” nel passato, è giusto che ora esagerino anche gli altri (anche se poi uno dei Paesi ecologicamente più impattanti, gli Stati Uniti, non è proprio tra i più virtuosi, oltre che “sviluppato” da quel dì). È infatti un discorso un po’ semplicistico e infantile: all’epoca della Rivoluzione Industriale non c’erano certo gli strumenti, le conoscenze e i materiali che abbiamo oggi! E’ di sicuro molto meglio svilupparsi abbracciando subito le nuove tecnologie, saltando il dannoso passo intermedio, che non è certo un discredito, ma una convenienza visto che porterebbe a evitare la costosa riconversione (ma finché c’è petrolio è difficile convincerli del contrario, e in molti casi, c’è un tale tasso di disagio sociale, per non dire guerra, che purtroppo la sostenibilità non può essere il loro primo pensiero…) Sarebbe comunque molto importante il cambio di approccio visto che, per esempio, la maggior parte dell’inquinamento del mare viene dalla terra, come sottolineato dall’impresa più grande e immaginifica del settore, The Ocean Cleanup, che si propone addirittura di ripulire gli oceani (a patto che tutti facciano qualcosa per non continuare a inquinarli).

Addirittura si stima che in Italia “il 75% dei rifiuti in mare è plastica, e viene dai fiumi. A livello mondiale sono dieci quelli più inquinati e inquinanti che portano addirittura il 90% della plastica negli oceani: il Niger e il Nilo nel continente africano, il Gange in India e Bangladesh, e poi il fiume Giallo, l’Hai he e lo Yangtze più Indo, Mekong, Pearl e Amur che coinvolgono la Cina in primis più altri nove Paesi attraversati. Anche se la stessa Ocean Cleanup ci va più leggera considerando 20 fiumi responsabili del 67% di plastica negli oceani. In ogni caso, al di là del solito balletto dei dati che comunque su “stime” in continua revisione si basa, la maggior parte della plastica in mare dai fiumi arriva. Come se poi fossero i fiumi i “colpevoli”. Piuttosto, come ci arriva la plastica nei fiumi? Purtroppo gli studi su questo aspetto sono ancora pochi o quasi nulli. Senza però scadere nel classico stereotipo univoco che addita senza vedere, perché, per dire, vi aspettavate che l’Iran facesse la differenziata? Probabilmente no, ma invece sì. Certo non è ancora automatizzata (d’altra parte non è che da noi l’automazione brilli), ma anche se ancora “manuale”, è già un bel passo avanti, ed è anche meglio “organizzata” di tanti altri Paesi.

Zuhal Atmar’s paper recycling plant processes up to 30 metric tons of waste each week, turning it into toilet paper that is sold across Afghanistan.
Anche l’Afghanistan non è da meno. O almeno ci prova Zuhal Atmar, 35enne, alle prese col suo impianto di reciclaggio di Kabul che processa 33 tonnellate di rifiuti ogni settimana… (da Los Angeles Times)

È anche vero che nel frattempo sono state inventate le bioplastiche, in tutto e per tutto uguali alla plastica, ma biodegradabili e compostabili (se derivano da materie prime rinnovabili). Tra cui la canapa. Ma ad “oggi siamo sui 2 milioni e mezzo di tonnellate… rimane quindi un’utopia per i prossimi 20-30 anni l’idea di sostituire tutta la plastica in bioplastica”, sostiene ancora Protopapa. In ogni caso “per produrla si utilizzano biomasse che vengono così sottratte ad altri settori come l’agricoltura e l’alimentazione” e “di solito costa il doppio o il triplo delle plastiche comuni”. Infine, “anche se il prodotto si degrada, nulla andrebbe comunque lasciato in giro, anche perché la bioplastica non degrada come si riteneva, portando a creare consorzi che si occupano anche di questa differenziata… un vero e proprio paradosso!”

Tutte vere queste affermazioni, ma anche tutte aggirabili… nel tempo. Anzitutto le bioplastiche sono comunque “polimeri biodegradabili”, come precisa Francesco Paolo La Mantia, docente (in pensione) di Tecnologia dei Polimeri presso l’Università di Palermo, e non si può non affermare che questa “capacità” sia un netto miglioramento (a livello di sostenibilità) rispetto alle plastiche “classiche”. “Sono cioè simili ai polimeri naturali: degradati fino alla produzione di Co2 e acqua per azione di microrganismi. Grazie alla sintesi clorofilliana ritornano cioè come materia vegetale (biomassa) e non aumentano la Co2 globale, se il tutto deriva da fonti rinnovabili”. Bisogna fare attenzione però perché “biodegradabile non significa solubile“: effettivamente “il tasso e il tempo di biodegradabilità cambia a seconda delle condizioni ambientali”. Ma anche questo aspetto non può scoraggiare un loro utilizzo in Italia, anche se dovessero alimentare un ulteriore sistema di smaltimento. Inoltre, si sa che i costi di qualsiasi nuova tecnologia si abbattono all’aumentare dell’utilizzo; le biomasse non si sottraggono a nessun settore se vengono aumentate e pensate per altri settori; infine, le tonnellate di bioplastica aumenterebbero se tutti si mettessero nel settore… d’altra parte è vero, verissimo, che l’impellenza oggi è risolvere la presenza e continua produzione delle altre plastiche

Plastica è petrolio prestato al mercato”. Piero Capodieci del Conai (altro Consorzio Nazionale Imballaggi senza fini di lucro) sostiene che “ci sono una serie di convinzioni che creano il mito positivo e negativo della plastica”. Ma di sicuro “fino agli anni ’50 c’erano pochissimi rifiuti. Il famigerato “monodose” è arrivato “perché a un certo punto le famiglie erano sempre più composte da una o due persone”. Più tanti altri fattori: “il prolungamento della giovinezza – oggi siamo adolescenti fino a 30-40 anni -, l’aumento delle coppie che lavorano, l’offerta superiore alla domanda che porta alla sofisticazione degli imballaggi, la globalizzazione che crea maggiore distanza tra luogo di produzione e luogo di consumo…” finché oggi si è arrivati alla “percezione dei vincoli ambientali”. Adesso “son più numerose le fasce d’età con una maggiore capacità di spesa in Italia, ma in Nigeria è l’esatto contrario… se volete capire il mondo basta guardare la demografia! In 150 anni la popolazione del centro nord è triplicata rispetto al sud dove è solo raddoppiata”. Ma soprattutto si nota questo, che “l’Italia rivela un divario molto più netto tra est e ovest, che tra nord e sud”.

C’è un fatto culturale: la plastica viene vista come un materiale ‘peggiore’”, continua La Mantia, “evidentemente, siccome è l’unico materiale che è stato creato dall’uomo ci sentiremo in colpa… ma le qualità sono tante – riguardanti “la meccanica, l’impermeabilità, la sterilizzazione, la trasparenza, la resistenza (paradossalmente anche alla biodegradabilità, se un prodotto è stato concepito per resistere nel tempo!)”. Ma non finisce qui. La plastica ha queste proprietà, ma “anche le proprietà opposte, ed è una cosa rarissima per qualsiasi materiale”. Infatti le plastiche al contempo “possono anche essere opache, permeabili, biodegradabili…”

La plastica, inoltre, non è così “artificiale” come si pensa. “I polimeri sono materia organica, è una serie di carbonio, come lo siamo anche noi, che oltretutto invecchia come noi! Questo per esempio non succede al vetro che viene dal silicio: se metto del vetro in una fornace ciò che esce fuori è la stessa materia. Invece la plastica cambia: non è detto che possa essere riutilizzata allo stesso modo”.

Riciclo” significa “riutilizzo” che però non riguarda solo il recupero della materia (il “riciclo” più conosciuto). Qualsiasi materiale plastico, una bottiglia per esempio, non può essere riciclato all’infinito, come dire che perfino la plastica ha un suo “fine vita”. Ma, quando questo succede, “può essere comunque utilizzata per ottenere energia”. O altri formati. “Per esempio, quando il Pet non tollera più la trasformazione in bottiglia, viene filato, vedi il pile”. A riprova di questo posso anche citare la mia borsa, comoda e resistente, pagata 15 euro e ottenuta dal riciclo di 19 bottiglie. Insomma ci sono un mare di possibilità: poco è non trasformabile o unibile – “gli unici materiali difficili da unire”, scherza La Mantia, “rimangono gli uomini e le donne…” Per tutto il resto c’è il riciclo, appunto, e l’Italia non è messa così male come chiaramente immaginiamo e ci aspettiamo…

(continua con Il ciclo del riciclo e la leadership dell’Italia)

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