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Calcio e regime

Le foto dei giocatori della Nazionale di calcio della Turchia che si esibiscono nel saluto militare durante le partite contro Albania e Francia, a pochi giorni dall’invasione del nord della Siria progettata dal presidente Recep Erdoğan, hanno fatto il giro del mondo. E con esse, è scattata l’indignazione automatica e superficiale. È ovvio che il gesto sia deplorevole, non è questo il punto. Ma non possiamo essere sicuri che questo significhi necessariamente appoggiare il regime.

Dopo il presunto golpe del 2016, Erdoğan ha stretto la morsa del proprio potere contro magistrati, giornalisti, intellettuali vari e persino sportivi. Lo sport è un motore di aggregazione sociale come pochi altri, agisce direttamente sugli istinti e costruisce l’identità. Nella maggior parte dei casi in maniera genuina e innocua, ma a volte può essere strumento di propaganda a buon mercato.

Un veterano della Nazionale come Hakan Şükür, ad esempio, a fine carriera si è buttato in politica, ma dal lato sbagliato e ora vive praticamente in esilio in California – certo poteva andargli peggio – dove gestisce una caffetteria. “Sarei potuto diventare ministro”, dice Hakan senza troppi rimpianti, perché almeno è rimasto fedele ai suoi ideali.

Enes Kanter, cestista oppositore del regime di Erdogan per questo privato della cittadinanza e condannato a quattro anni di prigione (con mandato di cattura internazionale)

Il cestista ora a Boston Enes Kanter è stato invece condannato a quattro anni di reclusione (mandato di cattura internazionale) e alla perdita della cittadinanza, divenendo così apolide, mentre la famiglia è praticamente ostaggio in Turchia. E questi sono solo i due casi più noti.

Non tutti sono spiriti eletti, però. Ed è comprensibile che un giocatore che pure militi all’estero abbia qualche timore per i familiari che vivono in Turchia, dove qualcosa come 50 mila persone sono in prigione ufficialmente per terrorismo, di fatto perché oppositori del regime. Si dovrebbe spezzare il circolo vizioso, giustissimo, ma un conto è dirlo e un altro è combattere il proprio istinto di conservazione, specie se le conseguenze possono ricadere anche su altre persone.

Può quindi essere che qualcuno dei nazionali sia effettivamente un sostenitore sincero di Erdoğan, ma non possiamo saperlo con assoluta certezza. Ed è una cosa di cui tener conto prima di inveire contro questi ragazzi, verso cui non valgono i parametri del dissenso a cui siamo abituati. Sarebbe come biasimare i giocatori che si esibivano nel saluto fascista durante il ventennio.

L’Italia festeggia i mondiali del 1934, occasione di propaganda internazionale per il regime fascista

Mussolini è stato uno dei primi a capire che il calcio potesse essere veicolo di propaganda e sicuramente il primo a sfruttare un evento sportivo importante come i mondiali del 1934 – solo due anni dopo ci saranno le avveniristiche Olimpiadi di Berlino 1936, assegnate però quando era ancora in piedi la Repubblica di Weimar. Da una parte si mostra il lato migliore all’estero, nascondendo ogni altra nefandezza, dall’altra si compatta il popolo verso l’obiettivo finale, la vittoria. Tutto ovviamente intriso di una stucchevole retorica.

L’Italia vincerà quei mondiali grazie a ripetuti e istituzionalizzati aiuti arbitrali. Paradossalmente sarà ancora più funzionale al regime la vittoria dei mondiali di Francia del 1938. Primo perché più meritati, ma magari contava meno. Poi perché la politica europea era ormai abbastanza delineata negli schieramenti. La Francia era stata nemica anche nella guerra civile spagnola, prova tecnica di quello che sarebbe accaduto di lì a breve. E la Nazionale di calcio, per quanto desiderasse solo fare il suo lavoro, era insignita dall’alto di ben altri oneri simbolici.

Nel secondo dopoguerra si capisce bene che organizzare i mondiali vale la pena eccome, pure se non c’è una vera e propria dittatura ma uno di quegli ambigui governi populisti che hanno caratterizzato la Storia del Sud America. Getúlio Vargas, a capo del Brasile anni ’30, trae ispirazione da Mussolini e ottiene i mondiali del 1942, poi rinviati al 1950 perché nel frattempo il mondo ha rivolto le attenzioni altrove.

Getulio Vargas, presidente brasiliano negli anni ’30 e poi nei ’50. Copiò da Mussolini l’idea di calcio come veicolo di propaganda politica

Inizialmente i mondiali si sarebbero dovuti giocare nel 1949, ma il governo militare brasiliano di transizione – Vargas non c’è più, ma non per molto – chiede tempo perché sta finendo di realizzare il monumentale stadio Maracanã, che poi sarà teatro della drammatica sconfitta finale. Il piano dei militari è semplice: indicono le elezioni a dopo i mondiali, convinti che il successo spingerà gli elettori a dare legittimità democratica alla giunta.

Invece vince l’Uruguay e torna Vargas, ma al di là di quello è significativa la dichiarazione governativa che, grazie ai mondiali, vuole mostrare al mondo che in Brasile non ci sono “puma e serpenti per strada”, ma “centri civilizzati”.

Un desiderio di fondo di emancipazione, rovinato dalla realtà dietro le dichiarazioni di facciata, che anima anche lo Zaire del 1974. Mobutu Sese Seko è al potere da quasi dieci anni e la sua politica ufficiale è tutta un’esaltazione del panafricanismo contro lo sfruttamento coloniale bianco – lo stessa scelta della denominazione locale “Zaire” al posto del portoghese “Congo” è indicativa.

È in nome di questo che a Kinshasa si tengono lo storico incontro di boxe fra Ali e Foreman e i concerti di James Brown e B.B. King. Peccato che Mobutu sia uno dei più grandi cleptocrati del mondo e a sua volta sottragga risorse ai fratelli zairesi, africani, neri come un qualsiasi Leopoldo II del Belgio.

La tragicomica punizione di Rivelino (il numero 10), interrotta da Ilunga (al centro dell’immagine) che esce dalla barriera per allontanare il pallone. Solo molti anni dopo si scoprirà il retroscena tragico

Il fiore all’occhiello è la Nazionale di calcio, i leopardi, così chiamati per la passione dell’eccentrico Mobutu (non è certo il peggior difetto) per quella particolare pelliccia. Vincono la coppa d’Africa del 1968 e del 1974 e si qualificano ai mondiali dello stesso anno in Germania Ovest, prima squadra sub-sahariana a farlo.

Però confrontarsi con le europee e con le sudamericane non è come competere nel proprio continente. Se con la Scozia lo Zaire ottiene un onorevole 0-2, con la Jugoslavia è tracollo: 9-0 per i balcanici. Mobutu va su tutte le furie e minaccia di morte i giocatori e i loro parenti. Anzi, promette la morte, a meno che salvino la faccia nell’ultima partita del girone contro il Brasile. I verde-oro hanno bisogno di vincere 3-0 per qualificarsi e quello è il limite consentito da Mobutu. Prendere il quarto gol sarebbe la definitiva condanna.

A cinque minuti dalla fine è 3-0 per i brasiliani, che però hanno a disposizione un calcio di punizione pericoloso, perché è dal limite dell’area e perché Rivelino è uno specialista. Improvvisamente dalla barriera si stacca Ilunga che corre come un pazzo verso il pallone e lo calcia lontanissimo, tra gli sguardi un po’ sorpresi e un po’ divertiti sia dei rivali che del mondo intero. Dato che i terribili retroscena non li conosce ancora nessuno – e rimarranno segreti per molti anni – si pensa al mito del buon selvaggio, che nemmeno conosce le regole base del calcio.

Ovviamente Ilunga sa bene le regole, solo che cerca di perdere tempo, di spezzare il ritmo e la tensione in ogni modo, anche a costo di una figuraccia planetaria. Meglio che subire una strage. Mobutu semi-perdona la squadra, li grazia ma gli toglie tutti i soldi e la popolarità con cui li aveva ricoperti, ordina una sorta di damnatio memoriae. Come se si fosse aspettato chissà cosa da quei mondiali.

Il documentario di Matteo Marani “Il mondiale desaparecido” sui discussi campionati argentini del 1978, quando la patina del bel calcio nascondeva i crimini contro l’umanità del triumvirato militare

Quattro anni dopo ci sarà uno dei mondiali più discussi. È il 1978 e si gioca in Argentina, Paese che da anni sta vivendo una crisi politica che ha riportato in carica addirittura Juan Perón, fino all’infarto che lo stronca nel 1974. Nel 1976 il potere lo prende Jorge Videla, generale dell’esercito che instaura un triumvirato con Emilio Massera e Orlando Agosti. Sono sette anni sanguinosi, con migliaia e migliaia di morti, di incarcerati e di desaparecidos.

In mezzo ci sono i mondiali, che come spesso avviene sono una scusa per patinare la situazione interna, mostrando la normalità alle telecamere. Interi quartieri tra i più periferici e problematici vengono rasi al suolo, altri nascosti da bei murales. Le incarcerazioni sono sopra la media, per evitare che le voci dissidenti denuncino le atrocità del triumvirato davanti a tutto il mondo.

Il regime carica di entusiasmo il Paese, usando la retorica dei 25 milioni di abitanti che scenderanno in campo e vinceranno insieme ai giocatori e all’allenatore Menotti, mal visto da Videla ma troppo bravo per essere rimpiazzato.

Nei discorsi ai suoi, Menotti invita a ignorare le divise, presenza fissa in tribuna, e di pensare a quegli strati più umili di popolazione che per 90 minuti avrebbero messo da parte i loro gravi problemi. La vittoria contro la straordinaria Olanda di Cruijff sarà veramente condivisa dalla squadra con il popolo, a dispetto della dittatura che per fortuna avrà ancora vita breve, anche se i danni erano ormai stati fatti.

Assad in visita alla Nazionale siriana. Visto che molti dissidenti l’hanno abbandonata, chi accetta la convocazione è considerato vicino al regime

Si possono fare numerosi altri esempi di come, anche in tempi recenti, i mondiali siano stati una scusa per distrarre da un regime autoritario, come Russia 2018, o da forti tensioni sociali, economiche, razziali come Sudafrica 2010 e Brasile 2014.

O di come il potere abbia veicolato il calcio per i propri scopi. Dalla Corea del Nord del 2006 alla Siria, che ha sfiorato una clamorosa qualificazione ai mondiali del 2018 con una Nazionale più o meno fedele ad Assad, ma costretta a giocare a decine di migliaia di chilometri da casa, addirittura in Malesia.

A volte anche tra i giocatori c’è qualche voce che si leva, come il caso del cileno Carlos Caszely… (continua la prossima settimana con Calcio e regime (pt.2): il no di Carlos Caszely)


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