La Spagna si aggiudica i mondiali maschili di basket 2019 disputati in Cina, rinsaldando il legame con l’estremo oriente. Si tratta infatti del secondo titolo iridato, il primo risale al nemmeno troppo lontano 2006 in Giappone.
Rispetto a quella Spagna, la squadra attuale ha dimostrato qualche vulnerabilità in più, se non altro nella partita contro l’Italia nel secondo turno, al gironcino. Nella sfida dentro-fuori gli Azzurri, che pur non sono una superpotenza, hanno messo in difficoltà le Furie Rosse, perdendo solo 67-60 dopo essere stati avanti per quasi tutto il corso della gara. Fatali gli ultimi 4 minuti, in cui Luigi Datome e compagni non sono riusciti a incidere permettendo a Sergio Llull (l’uomo dalle quattro “L” su cinque lettere) e soci di rimontare e qualificarsi ai quarti di finale.
Per il resto va detto che la Spagna ha fatto un percorso netto, rischiando solo con l’Italia. Tutte vittorie, dal 101-62 inaugurale alla Tunisia, passando per lo schiacciante 81-69 alla favorita (dopo gli Stati Uniti) Serbia fino al secco +20 rifilato all’Argentina in finale (95-75).
Un po’ di Italia c’è comunque stata, sul gradino più alto del podio, si direbbe per consolarsi. L’allenatore è infatti il cinquantottenne bresciano Sergio Scariolo, già campione d’Europa 2015 sempre con la Spagna, da cui ha attinto per conquistare la Cina e il mondo. Oltre al già citato Lull, erano presenti anche Guillermo Hernangómez, Ricky Rubio e soprattutto i due reduci del Giappone, i classe 1985 Rudy Fernández e Marc Gasol.
Per quest’ultimo, un anno particolarmente ricco di soddisfazioni. Dopo essere stato a lungo il “fratellino” del più affermato Pau – campione NBA a Los Angeles nel 2009 e 2010 oltre che con la Nazionale – per Marc è arrivato prima il trionfo con Toronto, che ha scalzato dal trono i Golden State Warriors della Bay Area, poi, appunto, il mondiale.
Gasol aveva fatto molto parlare di sé anche nell’estate 2018, per motivi extra-sportivi. Nella polarizzazione estrema del dibattito che il tema migrazioni suscita, qualcuno avrà storto il naso e tutto quanto si possa storcere, per altri sarà diventato ancora di più un mito: l’allora giocatore di Memphis era nell’equipaggio della ONG Open Arms ed è in tutte le immagini di coloro che stanno salvando la camerunese Josefa, famosa per l’espressione del volto comprensibilmente sotto shock e perché vittima della virale bufala sullo smalto rosso alle unghie, che ne avrebbe automaticamente fatto un’attrice spensierata e non una sopravvissuta a chissà quali orrori.
Inscindibile dal tema migrazioni è anche la storia da film di Giannis Antetokounmpo, il giocatore più atteso dei mondiali ma anche una delle (relative) delusioni. Nato come Adetokunbo da genitori nigeriani, il cognome cambierà grafia per adattarsi alla fonetica greca (ma la pronuncia resta la stessa), il Paese dove la famiglia si era trasferita. Illegalmente.
Giannis e i fratelli (ben quattro!) aiutano i genitori come possono, ma mettere insieme i pasti non è cosa facile. Quando va bene fanno i babysitter, sennò vendono borse per strada. La via di fuga, grande classico, sta nello sport e i fratelli Antetokounmpo sono ben tarati per il basket. Ma anche permettersi l’abbigliamento adatto all’inizio non è facile, Giannis e Thanasis devono così dividersi l’unico paio di scarpe a disposizione.
Il talento porterà entrambi in Nazionale, mentre un terzo fratello, Kostas, è stato tagliato dal roster proprio a ridosso dei mondiali cinesi. Thanasis arriva a giocare a New York nell’NBA, farà ancora meglio Giannis, dal 2013 a Milwaukee e nella stagione 2018-19, a venticinque anni, votato MVP, ovvero il miglior giocatore dell’anno, dopo aver trascinato la sua squadra fino alla finale di Eastern Conference, dove sarà eliminata dai Toronto Raptors di Gasol.
In mezzo c’è ancora tanto del “Greek freak” cresciuto per la strada. Vuole l’aneddotica ufficiale che poco prima di una partita al suo primo anno negli Stati Uniti, il giovane Giannis inviò per sbaglio tutti i soldi che aveva in tasca alla famiglia ad Atene, senza lasciarsi nemmeno il necessario per raggiungere il palazzetto in taxi. Cominciò a correre come un pazzo per non fare tardi, finché rimediò un passaggio in macchina da persone evidentemente incuriosite dal comportamento di questo gigante di oltre 2 metri.
Altri episodi raccontano ancora meglio l’imprinting di Antetokounmpo, che alle nostri latitudini appartiene ad altre generazioni. Quelle che hanno visto la guerra e che consideravano un qualsiasi surplus non come uno sfizio da concedersi, ma qualcosa da far durare in vista di giorni peggiori, che tanto arriveranno.
Così Giannis faceva ridere tutti i compagni quando ai buffet della squadra riempiva buste capienti con il cibo, che era pure gratis! Larry Sanders, giocatore sempre dei Milwaukee, gli regalò un paio di scarpe di marca, praticamente quelle che Giannis vendeva (false) da adolescente per le vie di Atene. Non dimentico dei suoi trascorsi, Antetokounmpo promise che le avrebbe indossate – visto il prezzo elevato – solo per le occasioni speciali.
Sarebbero potuti essere i suoi mondiali, la Grecia del resto è sempre stata una buona squadra. Due volte campione d’Europa, in più bisogna aggiungere uno storico secondo posto ai mondiali 2006, con tanto di vittoria sugli Stati Uniti in semifinale, vanificata dalla solita Spagna nell’atto conclusivo.
L’unione tra la vecchia guardia (Calathes, Bourousis, Sloukas, Printezis, Papanikolaou) che ha qua e là spadroneggiato in Europa e il nuovo fenomeno che ha conquistato gli Stati Uniti non si è però rivelata vincente. Nell’ultima partita contro la Repubblica Ceca, vinta ma con troppi pochi punti di scarto per qualificarsi, Giannis è stato anche espulso nel finale per aver speso il quinto fallo (contestato dagli ellenici) in attacco.
Anonimo anche il mondiale degli Stati Uniti, chiuso appena al settimo posto dopo due vittorie di fila nel 2010 e 2014. Con un complesso di superiorità simile a quello del calcio inglese dei primissimi anni, quando i Leoni Bianchi non si “sporcavano” a fare i mondiali con le altre squadre plebee, gli States hanno raramente messo in campo la squadra migliore a livello di Nazionale. La prima volta che furono convocati professionisti per un’Olimpiade fu il 1992, a Barcellona: Lo storico dream team guidato da Chuck Daly con, tra gli altri, Michael Jordan, Scottie Pippen, Larry Bird, Karl Malone, Chris Mullin e Magic Johnson.
Ma mediamente si è sempre preferito, giocatori, club e federazione, privilegiare il campionato e mettere in secondo piano i mondiali. Non tutti, visto che il dirigente Jerry Colangelo ha preannunciato che quando bisognerà stilare l’elenco dei convocati per le Olimpiadi di Tokyo 2020, ci si ricorderà di chi ha marcato visita – tra i tanti campioni anche James Harden, quello che qualche mese fa si è pure beccato una valanga di insulti razzisti sul web da persone che, chiaramente a digiuno di basket, pensavano fosse un immigrato il quale, coi leggendari 35 euro al giorno, si riempiva di scarpe di una nota multinazionale tedesca.
Una menzione finale la merita Luis Scola, leader assoluto della finalista Argentina alla veneranda età di 39 anni. L’ala degli Shanghai Sharks è da poco fuori dal grande basket, dopo dieci anni di NBA e un passato europeo pure niente male, a Vitoria, squadra basca che in Eurolega fa sempre la sua figura. Ma a differenza di tanti calciatori che chiudono la carriera in Cina o altre mete esotiche mettendo da parte anche la Nazionale, lui (Luis) l’Argentina non l’ha mai lasciata.
Già vicecampione del mondo nello (sportivamente) lontanissimo 2002, quando a Indianapolis vinse la Jugoslavia, Luis si è preparato con grande spirito di sacrificio per questi mondiali, svegliandosi per quattro mesi di fila all’alba per svolgere allenamenti che qualcuno ha anche definito “alla Rocky”.
15 punti contro la Corea del Sud all’esordio, 23 punti con la Nigeria, 21 con la Polonia. Ai quarti la vendetta con la Serbia, favorita insieme agli Stati Uniti di questo mondiale, con altri 20 punti sul tabellino. Poi il capolavoro con la Francia (che a sua volta aveva eliminato gli States) in semifinale: la bellezza di 28 punti, 13 rimbalzi e 2 assist.
Non c’è per Scola il lieto fine da film, i suoi si arrendono a una Spagna sempre in controllo della partita. Né Luis trascina i suoi né viceversa, è la prima partita in cui il veterano dei mondiali è sotto i 10 punti e il 75-95 finale è più che eloquente. Oltre alla medaglia d’Argento, a Scola rimane la soddisfazione di essere stato scelto dalla federazione di basket nell’ideale quintetto del torneo, assieme al francese Evan Fournier, al serbo Bogdan Bogdanović, al Marc Gasol che ci ha ricordato i valori della solidarietà umana e al MVP del torneo Ricky Rubio.