Roberto Speranza che recita a memoria il giuramento da ministro (forse sbagliando la formula dicendo “realmente” anziché “lealmente”, ma lasciamo il beneficio del dubbio) è finito tra le “notizie” – magari più da colonna di destra, ma in fondo sono quelle che meglio incontrano i gusti del grande pubblico – anche nei maggiori quotidiani e siti di informazione.
Senza nulla togliere al pur preparato neo-vertice del dicastero della Salute, imparare tre frasi in fila (“giuro di essere fedele alla Repubblica/di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi/ e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”) non è che sia questa impresa da Guinness dei primati. Ma in una fase storica dove l’esercizio della memoria è sempre più rado, anche una prestazione normale come quella di Speranza ha dello straordinario.
Le cause sono state ripetute fino alla nausea. La scuola non fa più esercitare la memoria come un tempo – date di tutte le battaglie di tutti i tempi, affluenti del Po, poesie o poemi vari. E poi c’è la tecnologia, che ci impigrisce. Una volta a forza di comporre i numeri di telefono te li imparavi, cercare le nozioni sui libri anziché su Wikipedia le faceva assorbire meglio, anche orientarsi nella toponomastica risente di Google Maps. Tutto vero, tutto già ben noto.
Ma non è solo questione di stile di vita o di abitudine. La neuroscienza studia da anni gli effetti che le tecnologie di tutti i livelli hanno sulla conformazione e le mappature che si vengono a creare nel cervello. Tecnologie di tutti i livelli, perché anche l’uso di attrezzi meccanici ha le sue ripercussioni sull’evoluzione della materia grigia. Quindi figuriamoci il bombardamento di input che arriva via PC o smartphone.
Le più ottimiste ipotesi su un superuomo tecnologico dal cervello iper-sviluppato potrebbero essere disattese dai risultati giunti finora. Secondo Lamberto Maffei, ex presidente e ora vicepresidente dell’Accademia dei Lincei e neurobiologo presso la Normale di Pisa, questa velocità di informazioni che riceviamo ci sta facendo perdere tutte quelle tecniche di apprendimento che si sono rafforzate e sedimentate lentamente, o meglio coi giusti tempi, nel corso dei millenni.
Così l’ “essenziale ma subito”, che poi ha una data di scadenza ravvicinata, rimpiazza l’approfondimento proprio dal punto di vista fisico. Si spengono i neuroni del pensiero lento, si accendono quelli più istintuali. E se andare a fondo nelle questioni diventa praticamente inutile, la conoscenza si ferma a uno strato più superficiale. Non sarà un caso che la comunicazione va a titoli riassuntivi che spiegano sinteticamente un concetto, tanto basta. Argomentare non interessa, basta che lo slogan arrivi alla pancia e che non ci si annoi.
Anatomicamente, per una parte cervello che va così così in determinati ambiti, ce n’è un’altra che se la cava alla grande. L’Istituto di Neuroinformatica dell’Università di Zurigo conferma quello che tutti sospettiamo, ovvero il progresso della corteccia somatosensoriale, addetta alla ricezione degli stimoli sensoriali. E l’uso del telefonino qualche cosa a che vedere ce l’avrà pure.
Ma oltre ai superpollici, questo strumento sta diventando una vera e propria memoria esterna, un’appendice del cervello, a giudizio di Maffei. Un’appendice che non dà gli stimoli corretti, ma che – parole di Maffei – è come un pastore che guida pecore sensibili solo al richiamo più forte. Insomma, ci sarebbe un piccolo difetto di pensiero critico. E di concentrazione.
Secondo una ricerca svolta dalla Microsoft in Canada nel 2015, i tempi di attenzione nell’intrattenimento sarebbero calati di quattro secondi in 15 anni, scendendo così sotto i dieci secondi.
Allarmi in tal senso arrivano anche da varie associazioni di docenti, abbiamo già riportato i dati ottenuti dalla professoressa di Psicologia presso la San Diego State University Jean Twenge sulla correlazione tra lettura su carta e la concentrazione. Distrazione indotta in molti casi dalla tecnologia stessa, vanificando di riflesso il mito del supposto multitasking, smentito e smontato da più teorie.
La Stanford University ha già nel 2010 messo in relazione multitasking e danni per la memoria a lungo termine, che si affiancano dunque a quelli per la memoria a breve termine di cui sopra. Detta così non c’è via di uscita e nessun gioco di parole con l’ignaro neo-ministro protagonista dell’inizio della riflessione potrà migliorare le cose.