A Roma, lungo la mal sopportata Cassia con le macchine sempre in fila, c’è qualche perla nascosta. Per esempio l’ambasciata del Kazakistan. E, proprio di fronte, il Teatro Patologico, il cui nome può suggerire cose disturbanti. Anche. Come testimoniano certe “storie da manicomio” agli inizi della carriera del suo fondatore. Ma è soprattutto un lavoro importante sulle emozioni (pathos) che all’estero ci invidiano, ma noi “chiaramente” conosciamo poco…
Il Teatro Patologico sulla Cassia a Roma è una delle tante realtà creative italiane che viene lodata e invidiata all’estero per l’intuizione, l’innovazione e soprattutto il grande potenziale “curativo” sui pazienti coinvolti. Parliamo infatti dell’unica compagnia teatrale al mondo in cui recitano persone affette da malattie mentali. Peccato che però, come stereotipo vuole, in Italia non è tenuta nella dovuta considerazione. Pochi lo conoscono. Eppure è proprio ascoltando e vedendo i miglioramenti dei pazienti coinvolti nei corsi e progetti ideati dal Teatro Patologico, che sembra il minimo affermare che “è un lavoro rivoluzionario” e un vero “peccato che le istituzioni non lo appoggino” come dovrebbero.
A parlare è Dario D’Ambrosi. I più lo riconoscono come l’ispettore capo Canton nella serie tv Romanzo Criminale, ma D’Ambrosi è anche professore emerito di Teatro integrato dell’emozione dell’università Tor Vergata, nonché fondatore, direttore e vero e proprio “abitante” del Teatro Patologico di Roma dal 1992, 27 anni con l’unico scopo di “trovare un contatto tra il teatro e le gravi malattie mentali”. La particolarità della sua scelta di carriera viene dalla sua vita e dai suoi interessi. Di genitori salernitani, D’Ambrosi nasce e cresce a San Giuliano Milanese in mezzo a compagnie poco raccomandabili, fra cui Renato Vallanzasca, tanto per rendere l’idea. A salvarlo dai brutti giri arrivò il calcio, giocando per qualche anno nella primavera del Milan con un giovane Trapattoni. Ma a D’Ambrosi piaceva il teatro, e fin da piccolo, coltivando una speciale attrazione per “la follia”, quella che poi stravolgerà tutto portandolo al suo personale “uovo di Colombo”.
Un’idea geniale come quella del Teatro Patologico arrivò a D’Ambrosi dopo la 180, la cosiddetta legge Basaglia del 1978 che per la prima volta aprì i manicomi. Fino a quel momento infatti i degenti non potevano comunicare con nessuno, compresi parenti e amici, salvo concessioni del direttore. Per non parlare di tutto il resto. Molti vennero rilasciati, come ex carcerati. Ma poi una volta fuori cosa avrebbero fatto? L’arrivo della legge fu per D’Ambrosi, come per molti altri, la prima occasione di poter entrare dentro un manicomio, vedere che succede, parlare con i diretti interessati.
Ma D’Ambrosi andò oltre: “Ero dentro al Paolo Pini di Milano, l’equivalente del Santa Maria della Pietà di Roma”, internato per tre mesi. Fu proprio durante questa forte esperienza che maturò in lui l’idea del teatro come quel qualcosa che questa gente poteva fare. In una bella intervista su questa esperienza racconta le sue emozioni: “mi colpì molto la complicità tra i malati, anche nel mascherare il dolore, perché 40 anni fa c’erano pochissimi psicofarmaci per tantissime patologie. All’epoca in alcuni casi clinici le reazioni erano anche violente e molti pazienti si auto-distruggevano. Spesso gli altri ammalati urlavano più forte del degente che stava male in quel momento. Per coprire le sue urla e manifestare empatia”. Un vero e proprio dramma, ma solo una delle tante cose che succedevano dentro i manicomi, ma nessuno sapeva. Perché i drammi disturbano.
“Lì dentro c’era un mondo incredibile da descrivere, e cosa c’è di meglio del teatro? Ho iniziato raccontando le storie di malati conosciuti” – solo tra gli artisti c’è l’imbarazzo della scelta – “finché un giornalista del Paese Sera”, nel 1979 dopo la messa in scena di Tutti non ci sono, sua prima opera teatrale a tutti gli effetti, “ci definì così, come una nuova forma di teatro, il teatro patologico”. D’Ambrosi decise allora di adottare questo nome e da lì sono arrivati i grandi riconoscimenti, ma solo dall’America dove pare che uno dei suoi grandi fan fu Andy Warhol in persona: andò a vedere Tutti non ci sono ben tre volte. O meglio All are not here. Da una scritta davanti al manicomio criminale di Aversa (Caserta) che recitava proprio Tutti non ci sono e tutti non lo sono. Come a dire: i matti non sono tutti lì dentro e forse non lo sono nemmeno. Molto di quello che ha vissuto in quei tre mesi al Pini di Milano è raccolto dentro questo spettacolo disturbante e nel successivo Crazy Sound. Ma fu Tutti non ci sono a girare mezzo mondo. Tanto che alla fine, in un’intervista americana, D’Ambrosi dichiarò di essere ormai in grado di dare una stima riguardo le reazioni del pubblico a seconda delle aree geografiche: “in Europa le persone reagiscono cercando di capire quali sono le difficoltà che il personaggio sta cercando di comunicare, mentre in Nord America c’è un distacco da parte del pubblico che non vuole essere quasi toccato dal problema. In Sud America invece c’è una grande partecipazione che instaura un rapporto sia emotivo ma anche di confronto”. Nonostante questo, anche o soprattutto a New York, rimase in scena per mesi: distacco sì, ma quello americano rimane pur sempre un pubblico “aperto e curioso, e anche fedele”.
Da allora riceve prove di ammirazione da altri registi come Spike Lee e Jim Jarmusch fino ad arrivare ai riconoscimenti delle grandi istituzioni, dalle Nazioni Unite al Parlamento Europeo. Il teatro con la sua compagnia stabile di “attori psichiatrici” va in tour mondiale, senza invidiare nulla ai grandi e famosi teatri. “Sono in partenza adesso per il Sudafrica, poi faranno tappa a New York e Los Angeles”. Dal 2016 la grande novità, una collaborazione aperta con l’università Tor Vergata di Roma che ha permesso a D’Ambrosi di realizzare il primo corso in “Teatroterapia innovativa”, i cui risultati (sorprendenti) sulle emozioni e comportamenti degli attori coinvolti sono dentro ogni spettacolo di fine anno…
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