Se Ronaldo o Messi decidessero di boicottare i mondiali per questioni sindacali ci sarebbe la rivoluzione, considerando anche la maniera viscerale di vivere il calcio in Paesi come Portogallo e soprattutto Argentina. La scelta di Ada Hegerberg, attaccante della Norvegia e del Lione e pallone d’oro in carica, di rifiutare la convocazione al campionato del mondo femminile di Francia 2019 non avrà avuto grandissimo risalto mediatico, ma le motivazioni di fondo sono molto importanti. E sono il vero nocciolo della questione sul dislivello salariale e professionale tra donne e uomini nel calcio.
Il problema serio non è tanto il fatto che il giocatore maschio guadagni mediamente di più, quello fa parte del mercato (o se vogliamo del capitalismo). Il calcio maschile ha ancora ricavi di gran lunga più alti, quindi è, secondo quest’ottica, logico che i Ronaldo, Messi o Neymar, che portano incassi enormi per il proprio club, prendano molti più soldi. La differenza infatti non è solo di genere ma anche con i colleghi di squadre di livello inferiore o con le riserve della loro stessa squadra.
Il problema serio è che la stragrande maggioranza delle giocatrici abbia contratti dilettantistici anche se milita in campionati di prima categoria. Ovvero qualche rimborso spese qua e là. Questo non riguarda nello specifico la Hegerberg e ciò rende ancora più onorevole il suo attivismo. Ad oggi (l’articolo è uscito una decina di giorni fa su Il Fatto Quotidiano) lei è una delle appena 1396 giocatrici professioniste di tutta Europa. Che praticamente sono numeri raggiungibili da una singola federazione. Facendo un calcolo approssimativo, se tra serie A e B maschile ci sono 42 squadre con circa una ventina di giocatori l’una, già si può arrivare a quota mille.
La Norvegia (di Hegerberger) ha parificato i gettoni di presenza in Nazionale. Ciò nonostante, per le donne non sono previsti compensi per le pubblicità né le stesse attrezzature e abbigliamento (una sola maglia e un paio di scarpini a testa). E il campionato locale resta dilettantistico.
La Francia, che pure sta più avanti di molti altri, ha il suo bel dislivello. Solo qualche calciatrice, come la Hegerberger, guadagna quanto un uomo di una squadra di metà classifica, le altre sono dilettanti. La TV che trasmette le partite, Canal+, sta aumentando gli investimenti per mandarne in onda l’esclusiva, passando da 200 mila euro a un milione e rotti nel giro di un anno. Per il campionato maschile, che tolto il Paris Saint-Germain è di livello basso tendente all’ignobile, la stessa rete spende circa un miliardo.
L’Italia, forse anche un po’ per la mancata qualificazione dei maschietti a Russia ’18, si sta appassionando al calcio femminile, superando (speriamo) lo stereotipo delle “quattro lesbiche” (sic!) che inoltre già prendono troppi soldi, frase non da bar ma di un dirigente federale. Qualche progresso culturale c’è stato, ma il gerundio di “superando” è d’obbligo, visto che la transizione è in pieno corso. E ha tante resistenze immotivate, tra le ultime quelle di Massimo Fini, stimato giornalista tanto da finire nella lista dei professionisti con la schiena dritta stilata da Dibba Di Battista qualche tempo fa (vabbè…).
Il gentil sesso infatti, per l’esimia penna de Il Giornale, non è adatto a uno sport di contatto come il calcio. Meglio le pallavolo con le sue gentilissime schiacciate da 100 km/h… Peraltro, giusto per una questione di logica, se il calcio non solo è sport maschio ma “metafora della guerra” (parola sempre di Fini), perché divinizziamo la fantasia e l’eleganza dei Pelè, Maradona, Cruijff, Di Stefano, Schiaffino, Puskás e non la ruvidezza dei difensori picchiatori, salvo qualche rara eccezione (blasfemia per un sudamericano) tipo Gentile che marca el pibe de oro nell’82?
Il punto non è dover parificare per forza in tutto e per tutto la Girelli a Paolo Rossi o a Baggio, Totti e Del Piero, ma almeno rispettare, riconoscere e valorizzare il lavoro, il professionismo.
Torniamo al fattore economico. In base alle regole del CONI solo calcio maschile, basket, ciclismo e golf (!) sono professionistici, tutto il resto no. E il calcio è l’unico tra questi sport in cui si fa distinzione di genere.
La legge che definisce il dilettantismo del calcio femminile è del 1981 e per quanto la FIFA si sia espressa per cambiare le cose in merito, non ha potere vincolante. Per cui, allo stato attuale, il tetto di ingaggi è 30 mila euro e rotti lordi a stagione più premi e indennità non oltre i 61,97 euro al giorno per cinque giorni su sette. Ma qualche piccolo passo avanti è stato fatto, da maggio 2018. La FIGC intanto ha tolto il calcio femminile dall’egida della Lega Dilettanti, sono stati eliminati i vincoli sui trasferimenti per chi ha meno di 25 anni ed è stato reso possibile firmare contratti anche pluriennali, fino a tre anni (il limite è invece di cinque anni per gli uomini).
Ma nel calcio femminile il coltello dalla parte del manico non ce l’hanno i giocatori, come i più forti tra i maschi, che hanno un potere contrattuale simile al ricatto, del tipo “o mi aumenti l’ingaggio o vado altrove gratis”. Qui di anno in anno si rischiava di andare al ribasso, del tipo “ti sto facendo il favore di farti giocare, stacce”.
Tutto bene? No, perché questi contratti restano dilettantistici, non prevedendo i benefici garantiti dal rapporto di lavoro subordinato come assicurazioni sanitarie o previdenza sociale.
Adeguamenti più sostanziali sono necessari, bisogna seguire una tendenza in decisa crescita. Non si può lasciare il calcio femminile nel dilettantismo, alla stregua delle partite dei campetti di periferia giocate alle 10 di domenica mattina davanti a quei parenti e amici che sono riuscirti a svegliarsi. La partita scudetto di quest’anno, Juventus-Fiorentina, ha sfiorato i 40 mila spettatori allo stadio e il mezzo milione in TV – per di più non in chiaro ma a pagamento.
Nuove entrate dovrebbero arrivare dagli sponsor (ovviamente). Finora i più grandi club, almeno quelli che hanno anche una squadra femminile – il Real Madrid non ce l’ha, per esempio – hanno sulle maglie gli stessi marchi degli uomini, ma si sta lavorando per ottenere sponsor differenti, portando a più ricavi e a maggiore indipendenza. Secondo la società di consulenza e revisione Deloitte, questo giro economico può di riflesso aumentare l’interesse dei media e quindi del pubblico, autoalimentando il sistema.
Vero che finora la maggior parte delle squadre sono nate come branca femminile di società di calcio maschile, ma proprio l’avere strutture sportive collaudate ed esperienza nella gestione finanziaria possono velocizzare la crescita del movimento e far raggiungere l’agognato riconoscimento di sport professionistico. L’importante è che a questo aumento di volume d’affari e spettatori corrisponda una nuova legge sui contratti, o si finisce sfruttati come nel basket studentesco statunitense… [continua la prossima settimana]