Nel 2016 la pena di morte ha mietuto (ufficialmente, ma il numero è probabilmente molto più ampio) 1032 persone in 23 Paesi, secondo il Rapporto di Amnesty International. La maggiore concentrazione è in cinque Paesi, nell’ordine Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan. Gli Stati Uniti sono usciti dalla prestigiosa “top 5”, piazzandosi in settima posizione, ma visto che gli altri Paesi non si autoproclamano faro della democrazia mondiale sono anche l’esempio più interessante da analizzare.
Il 2016 ha visto l’esecuzione di 20 detenuti in cinque Stati, Georgia in testa con ben nove, poi Alabama, Florida, Missouri e Texas. Altri 13 Stati hanno emesso 32 sentenze di condanna e in totale ci sono più di 2800 persone incarcerate nel death row, il braccio della morte. Il grosso (748) era in California, che per fortuna ha abolito ufficialmente la pena capitale a marzo 2019 grazie al neo governatore democratico Gavin Newsom, ex sindaco di San Francisco. È il ventunesimo Stato ad averlo fatto.
Il dibattito è incredibilmente ancora vivo, nonostante sia sempre più difficile trovare appigli per sostenere la pena di morte, sia dal punto di vista etico che pratico. Alcune stime sostengono che la condanna capitale sia addirittura più costosa di una “normale” carcerazione, poi non ci sono mai state prove dell’efficacia della sua deterrenza nel fare compiere delitti.
Inoltre è paradossale che lo Stato si macchi ufficialmente di un crimine orribile tanto quanto quello del condannato: se nel privato può essere comprensibile che una persona desideri la vendetta, non è accettabile che questa venga istituzionalizzata.
Bisogna dire che la più bella motivazione per tenere la pena di morte è arrivata dalla senatrice del Wyoming Lynn Hutchings: Gesù fu condannato a morte e dal suo sacrificio è nata la speranza del cristianesimo (sic!). Almeno adesso non c’è più la crocifissione (con buona pace di Mel Gibson), né la sedia elettrica, che regalava spettacoli altrettanto inconcepibili per la cosiddetta civiltà. Dal 1977 c’è quasi un’eutanasia, il dolce addormentarsi verso il nulla eterno grazie all’iniezione letale, no? No.
L’apparente quiete del condannato è smentita dagli studi scientifici. Partiamo dalla procedura, che varia tra Stati ma segue un certo protocollo. Viene prima iniettato un anestetico, poi un paralizzante, infine il veleno vero e proprio che causa l’arresto cardiaco. Un primo “problema” è che, dato il giuramento di Ippocrate, un medico non può per deontologia partecipare né alla creazione dei farmaci né all’esecuzione materiale, quindi dovrebbe tutto passare per le mani di non professionisti.
Come anestetico, fino al 2011 veniva usato il tiopental sodico, messo fuorilegge perfino dalla Food and Drugs Administration, agenzia che fa passare le peggiori nefandezze in virtù del principio “finché non si dimostra la pericolosità di un prodotto, questo può restare sul mercato”. Alcuni Stati, Arizona e Texas, l’hanno perfino importarlo illegalmente dall’Inghilterra e dall’India.
Dal tiopental si è passato al midazolam, che però è un blando sedativo. Ovvero, la prima iniezione non garantisce l’incoscienza del condannato, che quindi quando riceve la seconda iniezione sente tutta la paralisi degli arti e della respirazione, con un grave senso di soffocamento che, ovviamente, non può essere comunicato, spiega David Waisel, anestesista di professione. Secondo quanto riporta Waisel, la terza e ultima iniezione, quella letale, “sembra fuoco nelle vene”.
Sponsor del midazolam e testimone chiave nei processi a nome di sei Stati (Alabama, Florida, Montana, Ohio, Oklahoma e Tennessee) è Roswell Lee Evans. Ha un dottorato in farmacia, vero, ma dal 1994 lavora come amministratore e per sua stessa dichiarazione in tribunale (27 giugno 2018) non ha mai condotto nessuna ricerca su midazolam, diazepam, lorazepam, propofol, pentobarbital, tiopental né su alcun tipo di anestetico in generale.
Il suo rapporto in favore del midazolam è per la metà un copia e incolla di informazioni prese dal sito drugs.com, che ha materiale informativo ma che non può certo essere usato per fare diagnosi o prescrizioni. E non è l’unica faciloneria.
Nel 2014 Clayton Lockett, in Oklahoma, ha dovuto trascorrere 43 minuti di agonia per colpa del midazolam – l’iniezione non ha nemmeno preso la vena, invadendo i tessuti. Al processo, Mike Oakley del Dipartimento delle Correzioni, ha testualmente detto di aver preso le informazioni sul midazolam da “wikileaks or whatever”, cioè da “wikileaks o quello che è”…
Gli Stati che applicano ancora la pena capitale si stanno prodigando per ottenere una morte più “umana” – tutto tranne la sua abolizione. L’Arizona nel 2017 ha anche provato a dire ai detenuti di procurarsi da soli il veleno che preferivano – ovviamente poi non è stato messo in atto. Nel 2018 due condannati del Tennessee hanno optato per la cara vecchia sedia elettrica.
Alex Kozinksi, giudice della Corte d’Appello, conferma la brutalità dell’iniezione letale, nonostante la convinzione generale che induca un pacifico e graduale addormentamento. Giudice all’apparenza quasi illuminato (o meglio, con un basilare buon senso), invece no. La sua proposta è reintrodurre la ghigliottina (sic!).
I tentativi di esecuzione “umana” alternativa sono falliti. L’overdose da oppioidi impiega troppo tempo (anche due ore), il gas cianidrico (ultima volta il 6 aprile 1992) ha prodotto uno spettacolo raccapricciante, con il procuratore generale che ha vomitato e una guardia carceraria ha minacciato le dimissioni in caso di replica.
Si è anche pensato a una vera e propria replica dell’eutanasia, ma non può essere esercitata per due motivi. Primo, l’eutanasia può essere rapida solo se una persona è già in fin di vita, non se è sana. Secondo, il solito giuramento di Ippocrate. Per quanto si discuta sulle implicazioni etiche per i medici che praticano eutanasia o suicidio assistito, una cosa è eseguire una condanna a morte e tutt’altra è esaudire la richiesta di una persona… [segue “Il suicidio e la sua etica nelle società]