Il tango è uno dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità riconosciuti dall’Unesco, erroneamente considerato argentino. Prima precisazione, sarebbe (è) platense, cioè condiviso tra argentini e uruguaiani. Seconda, nasce dalla fusione di diversissime tradizioni e ritmi: Sud America, Africa, Europa, Caraibi. Terza, le versioni che conosciamo ora di questa danza sono state filtrate dai salotti buoni del Vecchio Continente – Parigi su tutti – poi tornate alla foce del Rio de la Plata e finalmente accettate dalla borghesia locale, che non accettava la precedente sconcezza.
A proposito della quale, nella sua pausa europea il tango fu sotto l’attenta lente del Vaticano. Pio X fece arrivare a San Pietro due tangueri, ovviamente bollati come scandalosi, anche se pare che il papa non vi trovasse nulla di cui lamentarsi. Che poi quella della Chiesa era la stessa opinione della Buenos Aires “bene”, dei quartieri alti, che mal digeriva una danza popolare e scabrosa. Per di più ballata anche tra soli uomini, che dimostravano così la propria abilità di maschio alfa prima di invitare le donne, rigorosamente a pagamento.
Le origini del tango erano nei bassifondi, negli Orillos, quartieri dove convivevano immigrati europei, ex schiavi, gauchos trasferiti in città. Per questo si fondevano storie ed esperienze malinconiche e andature musicali disparate: habanera cubana, payada platense, candombe afro-uruguagio.
Dalla loro sintesi nasce la milonga, ad inizio del XIX secolo. Il tango è sostanzialmente una sua variante, sviluppatasi dalla seconda metà dell’Ottocento, praticata nei conventillos – cortili delle case popolari – o nei peringundìn (bordelli). Il gergo usato è invece il lunfardo, un’altra miscela: di spagnolo (ovviamente), italiano, francese, inglese e pure tedesco.
Sebbene alla foce della Plata il tango non venga così apprezzato, intorno al 1910 c’è la svolta. La cosiddetta guardia vieja (la vecchia guardia) sbarca in Europa, dove spopola ma non senza critiche. Va infatti ripulita, resa più elegante e non è un lavoro facile, anzi. L’essenza del tango, la sua filosofia, sta proprio nel vissuto delle masse di immigrati che speravano di fare fortuna sulla Plata, degli schiavi liberati, delle difficoltà nel farsi accettare dalla popolazione locale, dalla loro vulnerabilità. “È un pensiero triste che si balla”, diceva il compositore e regista Enrique Santos Discépolo.
Grazie ad Ángel Villoldo, che “esporta” il tango oltreoceano, Parigi si sostituisce a Buenos Aires, introducendo delle innovazioni che un po’ snaturano il tango, ma lo rendono accettabile alla borghesia. Via l’improvvisazione, via (parzialmente) l’implicito contenuto sensuale (e sessuale), via ogni aspetto legato al barrio. Il tango non è più roba da poveri, da feste di piazza, entra ufficialmente nelle migliori sale da ballo. Nascerà il tango nuevo.
Solo a quel punto il tango torna da dove era venuto, gradito ai salotti buoni. Dal 1930 le sue fortune dipendono però anche dalla situazione politica circostante, con il colpo di Stato di Uriburu, poi rimpiazzato da Justo, che darà vita alla fase del “giustizialismo”. Prima del populismo di Perón si vive un certo classismo che condiziona anche l’apprezzamento del tango. A mettere tutti d’accordo saranno Astor Piazzolla e il movimento avanguardista, che restituisce anche quell’improvvisazione che lo aveva caratterizzato. Il resto è storia (abbastanza) nota.
Resta un solo, cruciale dubbio. Quello sull’etimologia della stessa parola “tango”. È certo che non fu inventata dal nulla, era già nei dizionari di inizio Ottocento, ma riferita alla variante di un gioco in cui bisognava, con una sorta di disco di pietra o con un osso, mirare una moneta posta sopra un cilindro a una ventina di metri. Niente a che fare col ballo, insomma.
Le ipotesi sono molte: il termine usato dagli schiavi dall’Africa per indicare i luoghi chiusi in cui venivano stipati per il trasporto in America; il rollio delle suddette navi in francese; una parola portoghese-creola per definire il commerciante di schiavi; i locali dove si riunivano i neri per cantare e ballare; la parola latina tangere, toccare, per il contatto nella danza; la semplice onomatopea dei tamburi.
Lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte ha dato una definizione che forse meglio di altre inquadra le peculiarità e i misteri di una danza dalle origini non chiarissime se non per la loro essenza cosmopolita platense, africana, caraibica e con sosta a Parigi: “il tango dà un passato a chi non ce l’ha e un futuro a chi non lo spera”.