Da inizio 2019 è cominciato il ritiro delle monete da 1 e 2 centesimi di euro – parallelamente a quello delle banconote da 500, ma è un’altra storia. Un po’ tutti quanti sarebbero sollevati dalla sparizione dei poveri “ramini”, odiati perché invadono tasche e borsellini, non hanno praticamente valore e sono pertanto difficili da smaltire.
Nonostante l’avversione irrazionale per i centesimi (in fondo sossoldi, come avrebbe detto Maccio Capatonda), ci sono un paio di problemi che non rendono l’eliminazione così facile o conveniente. La prima riguarda gli arrotondamenti.
Pagare 1,80 anziché 1,76 – l’ammontare dovrebbe essere invece arrotondato per difetto a 1,75 – non sarebbe tutto questo danno, apparentemente. Tanto con quei 4 centesimi non ci si farebbe praticamente nulla, ingombrano e basta. Ma non è proprio così, vedremo dopo.
L’altra questione è legata alla decentralizzazione del conio dei centesimi. Mentre per le banconote la competenza è della Banca Centrale Europea, le monete sono delegate ai singoli Stati. Così anche se l’Italia ne blocca il conio, altri Paesi continuano a produrli. E, data l’ampia circolazione, torneranno in Italia, dando senso al proverbiale “uscire dalla porta e rientrare dalla finestra”.
I vantaggi per le casse pubbliche ci sarebbero, ma non così netti. Il risparmio nel non coniare più 1 e 2 centesimi, secondo la zecca, sarebbe di circa 10 milioni l’anno. Cifra non altissima per i bilanci di uno Stato, vero, ma significativa perché, secondo alcune stime, i costi di produzione superano il valore nominale del prodotto.
Una mozione presentata nel 2013 da Sinistra Ecologia e Libertà, parlandone da viva, riportava un costo di 4,5 centesimi per quelle da 1 centesimo e di 5,2 per quelle da 2 centesimi. Mozione condivisa in maniera abbastanza trasversale, da Partito Democratico, MoVimento 5 Stelle e Scelta Civica. La relazione tecnica del 2017 invece sostiene che il conio rientra, di poco ma rientra, nei costi. Chi avrà ragione?
L’eventuale risparmio rischia però di essere neutralizzato dall’ambiguo arrotondamento, specie se tenderà all’eccesso più che al difetto. Perché 1,2, 3 o 4 centesimi saranno niente, ma sommati giorno dopo giorno per milioni di cittadini potrebbero arrivare a qualcosa come 20 milioni di euro.
Problema anche aggirabile, dato che che l’arrotondamento non vale per le transazioni elettroniche. Ma in Italia, secondo la BCE, l’86% dei pagamenti resta in contanti, contro una media europea dell’80%.
Olanda, Belgio e Irlanda sono stati pionieri della lotta ai centesimi, rispettivamente dal 2004, 2014 e 2015. La Finlandia ha fatto ancora meglio (o peggio), introducendo l’arrotondamento dei prezzi contestualmente all’adozione dell’euro.
L’Italia, sempre secondo un sondaggio della BCE del 2016, è nella media europea per quanto riguarda la scarsa sopportazione dei “ramini”. Il 63% del campione d’indagine ha dichiarato di usarli. In Lituania si sale all’84%, maglia nera è la Finlandia (ovviamente), con solo il 20%. Gli austriaci si sono invece dimostrati quelli più previdenti, con la maggiore tendenza a conservarli nel proverbiale porcellino.
Molti Paesi del mondo hanno adottato misure simili sul proprio conio più basso. Dopo Canada, Australia e Nuova Zelanda, anche gli Stati Uniti hanno ceduto sui penny, le monetine da 1 centesimo, la cui produzione sarà bloccata dall’aprile 2020.
Anche lì il dibattito è stato acceso, per le stesse problematiche. Partendo dal presupposto che al cambio un penny vale meno di un centesimo di euro, il loro utilizzo è ancora più limitato; i costi superano il valore nominale, proprio come in Europa; l’atteggiamento di chi ne usufruisce è decisamente più drastico.
Più di un esperimento sociale ha fatto vedere come quasi nessuno si chini a raccogliere penny quando li trova per la strada; peggio ancora, un sondaggio della Gallup del 2002 ha evidenziato come il 2% delle persone li gettasse letteralmente nella spazzatura. Sommandoli a tutti quelli si perdono in giro e non vengono raccolti – almeno a New York, se ne trovavano per terra quasi ogni giorno – fa un discreto gruzzolo, visto che la zecca ci ha investito qualcosa come 136 milioni di dollari l’anno.
C’era qualcuno che si spendeva romanticamente in favore del penny. Un gruppo si era denominato “Americans for common cents”, probabile gioco di parole con “common sense”, il senso comune. Il portavoce Mark Weller non è riuscito però a fornire spiegazioni valide per mantenere i penny, se non tirare in ballo “carità ed elemosina”, proprio un cuore d’oro. Poi in realtà si è scoperto che era un lobbista per la Big Zinc, l’azienda che produce i penny.
Altro gruppo, disinteressato, sono i sostenitori di Abraham Lincoln – il presidente che appare sulle monetine da un centesimo di dollaro – come i membri della Lincoln Library. Anche qui, però, carenza di argomentazioni, dato che Lincoln è pure sulle banconote da 5 dollari.
In sostanza, non importa che tu sia euro o dollaro. Se sei una moneta da pochi centesimi, comincia a circolare.