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Identità di genere, non è mica tutto rosa o azzurro

Sul web girano articoli che con tutte le buone intenzioni cercano di diffondere il senso di “normalità” per chi non si riconosce nella propria identità, maschile o femminile, se ci si sente più vicini alla “sensibilità” del sesso opposto. Il problema è che si confonde spesso la “varianza” con la “disforia” di genere. E soprattutto, per spiegare entrambe, si fa leva sugli stereotipi. Siamo proprio sicuri che bambini maschi e femmine abbiano certe inclinazioni, o siamo (soprattutto) noi adulti a indirizzarli sul “come crescere” secondo canoni ben definiti?

Giorni fa un’amica ci ha segnalato questo articolo. Bello nelle intenzioni, ma anche un po’ inquietante. Nel testo si definisce varianza di genere: “la condizione di quei bambini e bambine che mostrano, spesso fin dalla primissima infanzia, comportamenti e gusti attribuiti al genere opposto rispetto al sesso con cui sono nati. Per fare qualche esempio, maschi che amano il rosa, le gonne o nei giochi di ruolo interpretano le mamme, e femmine che vogliono i capelli corti, amano mostri e supereroi e aborrono fiocchi e lustrini”. La prima cosa che colpisce è: davvero riduttivo basare la complessa profondità dell’identità, di qualsiasi genere sia, su banali preferenze di giochi o colori che (tendenzialmente) piacciono o non piacciono ai due sessi. Soprattutto se si sta parlando della transizione di un ragazzino di 12 anni.

Spiegata da una psicologa, la varianza di genere è tutta un’altra cosa: “ovvero la costruzione del proprio genere in modo non strettamente conforme alle aspettative culturali e sociali, che non deve, in età evolutiva”, e cioè dai 3 ai 18 anni, “essere confusa con la disforia di genere”. Soprattutto da piccoli infatti “la varianza di genere fa parte di un fisiologico esplorare il proprio originale e creativo modo di costruire la propria identità femminile e maschile; al contrario la disforia rappresenta una condizione di profonda sofferenza nello scollamento tra una realtà fisico-anatomica e la dimensione psicologica e sociale del genere”. Significa quindi che, per esempio, se bambini maschi si mettono a giocare con le scarpe coi tacchi, non c’è niente di “strano”: sono i genitori che non dovrebbe necessariamente dare per scontato che vogliono diventare femmine!

L’identità è cosa più complessa: che il rosa e le gonne e i capelli lunghi e i fiocchi e i lustrini facciano una femmina, non solo è riduttivo, ma è anche sostanzialmente falso. Se è vero che l’identità debba, anzitutto, formarsi da sé stessi, da come si è, e solo dopo abbracciare la società e i suoi valori o voleri. Che poi è quello che naturalmente succede durante la crescita dei bambini. Se l’Io lo lasci libero di scegliere, non sceglie necessariamente il rosa se è femmina, né l’azzurro se è maschio. Questi accostamenti sono solo convenzioni che influenzano l’identità, ma non sono fondanti per la stessa.

Due anni fa la BBC ha condotto un esperimento per verificare se è vero che i bambini maschi e femmine sono fatti in un certo modo sempre prevedibile, oppure non così tanto. Are you sure you don’t gender-stereotype children in the toys you choose for them? E cioè: Sei sicuro che non stai stereotipando il genere dei bambini attraverso i giochi che scegli per loro?

Prendete due bambini piccoli, un maschio e una femmina, quando cioè i loro tratti del viso non sono ancora ben definiti. La femmina la vestite da maschio, il maschio lo vestite da femmina, e poi li affidate a un qualsiasi adulto e relativi giochi “da femmina” e “da maschio”. Vedrete che, mentre i bambini sarebbero orientati a giocare con tutto (o forse più con le cose da maschio), sono gli adulti a “imporre” loro quelli “adatti” al loro sesso. Adulti (ovviamente ignari dello scambio) ai quali, in seguito all’esperimento, si chiede: “qual era il gioco preferito del bambino?” “Il coniglio rosa!” risponde fermamente una donna, parlando del maschio creduto una femmina. Adulti che si ritengono anche persone mentalmente aperte e che rimangono infatti visibilmente colpite dalla loro “forzatura inconscia”.

Perché questi sono “solo” stereotipi in grado di superare perfino la realtà e la nostra coscienza. Sono gli adulti che decidono cosa deve piacere ai bambini. Questo “stupido meccanismo inconscio” è una cosa un po’ seria in realtà, visto che non fa altro che penalizzare soprattutto le bambine. E’ stato infatti verificato che, anche se in realtà era già abbastanza evidente, i giochi da maschio sviluppano meglio il cervello, essendo semplicemente più stimolanti (spaziali, fisici, di logica…). Peluche e bambole, bellissimi e tenerissimi, aiutano l’affettività e lo sviluppo di storie e fantasie, ma di certo non sono giochi molto pratici…

D’altra parte, è ancora più riduttivo pensare che bambole e bambolotti siano pensabili solo per le bambine o facciano un maschio meno maschio, visto che, come loro diventeranno forse mamme, anche i maschi diventeranno forse papà. Sviluppare in tenera età la voglia di intraprendere giochi di “cura”, come può capitare se si maneggiano bambolotti sempre più verosimili, non è certo un male, anzi! Ma poi qual è il punto? Il punto è che poi i maschi a cui piacciono i bambolotti non devono per forza sentirsi femmine per questo! Varianza? Disforia? Che i bambini si prendano tempo nel capire chi sono, nessuno gli corre dietro.

parità di retribuzione vs parità di gioco
“Se vogliamo parità di retribuzione, perché non partire da parità di gioco?” (da Let toys be toys)

Insomma, è una gran cavolata lasciare ancora intendere che se alle donne piace il rosa è “normale” o “naturale”, ma se piace a un uomo c’è da farsi qualche domanda. Io per esempio sono una femmina e lo odio. Da piccola amavo le Barbie, ma mi piacevano allo stesso modo anche i Transformers del mio vicino di casa, da cui andavo apposta per poterci giocare. Perché ovviamente a me nessuno li ha mai regalati. E no, non sono lesbica. Di contro ho amici maschi gay a cui da bambini piacevano i “classici giochi da maschio”, e amici etero che da piccoli giocavano col loro bambolotto (nero) preferito a cui magari avevano dato il nome di un calciatore, oppure sbavavano dietro le cucine giocattolo delle femmine e ancora adesso rimpiangono di non averci mai potuto giocare, perché già sentivano che non sarebbe stato preso bene. Ma da chi poi? La società. Questo essere onnipresente ma senza volto che giudica ogni tua azione. Eppure ce ne sono di maschi che cucinano tanto quanto le femmine, e senza onte, anzi, è fin troppo pieno di signori chef in tv… (giustamente ci sfilano dalle mani anche i nostri pochi primati!)

Una volta una signora, interessata da queste nuove tendenze “gender fluid” e curiosa di provare, regalò un carrellino della spesa giocattolo pieno di frutta e verdura colorata, al suo nipotino di 3 anni. Lui fu entusiasta appena lo vide, iniziando subito a giocarci. Ma già dalla volta dopo il carrellino era stato fatto sparire, non più presente nella sua dotazione giochi. Eppure i maschi fanno normalmente la spesa come le femmine. O dovremmo dedurre che la spesa è un gioco degradante solo per il maschio? Forse non era un granché di gioco per nessuno, e basta. Insomma l’identità non può essere spiegata tramite un semplice schema bianco/nero o per meglio dire rosa/azzurro. Ma chi li mette i confini? Non certo i bambini.

Leggi anche: Principesse, specchio (delle brame) della società

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