Censura, “esame da parte dell’autorità pubblica o ecclesiastica degli scritti o giornali da stamparsi, dei manifesti o avvisi da affiggere in pubblico, delle opere teatrali o pellicole da rappresentare, che ha lo scopo di permetterne o vietarne la pubblicazione, l’affissione, la rappresentazione ecc, secondo che rispondano o no alle leggi o ad altre prescrizioni” – recita la definizione Treccani.
Nel 2015 l’Associazione mondiale della carta stampata e il Center for International Media Assistance hanno riportato una nuova forma di censura, definita “soft”. Riprendevano un altro rapporto, realizzato da Open Justice Initiative nel 2005, che descriveva un sistema di potere che influenza i media senza interdizione legale, censura o minaccia economica diretta. Esercitando, di fatto, una sorta di ricatto, di pressione psicologica.
Una situazione che in maniera più o meno velata l’Italia ha già vissuto. Il periodo che più di altri ha alimentato il dibattito è stato l’esecutivo Berlusconi del 2001-2006, preceduto dalle dichiarazioni di Gianfranco Fini che minacciò di fare “piazza pulita in Rai” riferendosi al Raggio Verde di Michele Santoro.
Il 18 aprile 2002 l’apice, con quello che è passato alla Storia come “editto bulgaro”, pronunciato da Berlusconi a Sofia. In pratica fu la cacciata dalla Rai dei giornalisti Enzo Biagi e, appunto, Santoro e del comico (che in più aveva problemi col rispetto dei diritti d’autore) Daniele Luttazzi. Un anno dopo cadrà Sabina Guzzanti con il suo programma Raiot. Prima di loro fu Beppe Grillo l’altro grande “martire”, ostracizzato dalla televisione pubblica per una barzelletta sui socialisti. Era la metà del novembre 1986.
Informazione e satira, per qualche strano motivo, finiscono accomunate in un grande e indistinto calderone e sembrano essere le vittime preferite della censura.
Nei rapporti di Freedom House e Reporter senza frontiere sulla libertà dei media, l’Italia non fa bellissima figura per essere un Paese che garantisce per Costituzione le libertà fondamentali. Al 73° posto e giudicata “parzialmente libera” nel 2015, è risalita al 52° posto nel 2017 e al 46° nel 2018. Tendenza positiva, ma si rimane dietro Paesi considerati non particolarmente progressisti come Ghana, Namibia, Sudafrica, Burkina Faso, Taiwan e Romania. Gli Stati Uniti, che fanno della liberalità un vanto e un’eccellenza mondiale, sono appena una posizione avanti.
Ma bisogna fare le dovute distinzioni. Il principale problema è la criminalità organizzata: secondo Ossigeno per l’informazione sono 28 i giornalisti uccisi dalla mafia dal secondo dopoguerra, quindi in democrazia. In più bisogna considerare i circa 1500 minacciati soltanto a partire dal 2006, le decine sotto scorta – ultimo in ordine di tempo Sandro Ruotolo – e le centinaia di misure di sorveglianza.
Ma se si parla di politica in senso stretto la situazione cambia. Il quadro generale non è roseo, l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa parla di un deterioramento del clima tale da meritare un paragrafo a parte insieme a Russia, Ungheria e Turchia, compagnia non proprio delle migliori. Gli attacchi del governo ai media, soprattutto in occasione dell’assoluzione della sindaca di Roma Virginia Raggi, sono stati pesanti.
Ma se il clima d’odio è tangibile, va anche ammesso che nonostante tutto è possibile esprimere dissenso così come lo era sotto Berlusconi. Anzi, sono proprio i giornali più famosi e venduti a essere i più critici.
Il problema è la politicizzazione, per cui si sa benissimo chi appoggia il centrosinistra, la destra o il MoVimento 5 Stelle e di conseguenza sarà più morbido o aggressivo con gli avversari. Mentre la Rai si distingue per la sempre rassicurante posizione filo-governativa, che poi è il motivo per cui chi si discosta un po’ di più dalla linea ha un ruolo marginale, viene messo in discussione o epurato. Poi di anno in anno si parla di tenere fuori dalla Rai i partiti e la politica…
Ma esiste un problema censura in Italia? Ni. Sicuramente ai livelli più alti (Rai) ci sono più limitazioni, ma proprio per la natura generalista e istituzionale della rete. Vuoi per una questione di pudicizia, tipo i tagli di alcune scene con sesso e droga in The Wolf of Wall Street o di quelle omosessuali in Brokeback Mountain (saranno diventati due cortometraggi) che hanno fatto tanto discutere; vuoi per i dati auditel; vuoi per sconvenienza politica.
Però niente che non sia aggirabile, specie per quanto riguarda l’ultima tipologia. Esemplificativa in tal senso è la riesumazione di Beppe Grillo voluta da Carlo Freccero su Rai2. Freccero aveva subito pesanti conseguenze nel periodo dell’editto bulgaro, per le simpatie di sinistra (all’epoca). Voglia di vendetta contro la censura più passaggio ai 5 Stelle, la somma ha creato Grillo c’è, programma di spezzoni dell’ex comico satirico, mandato in onda per rendergli giustizia in Rai dopo 30 anni di esclusione totale.
Nessuno mette in dubbio che l’atteggiamento verso Grillo sia stato drastico, ma parlare di censura in senso assoluto rientra in una visione TV-centrica (o Rai-centrica) della comunicazione. Perché esistono altri mezzi. Reti private, spettacoli dal vivo – che creano un legame immediato con gli spettatori – anche se è vero che raggiungono un pubblico nettamente inferiore di una seconda o terza serata qualsiasi in Rai. E poi, da più di venti anni, c’è internet, strumento che Grillo ha sfruttato prima e meglio di chiunque altro.
Il suo blog è stato il più letto per diversi anni, prima della saturazione dell’offerta e della salita in classifica di Aranzulla, moda e cucina. Lo sviluppo è stato di pari passo con il suo movimento e sappiamo come è andata a finire. Insomma, un problema di censura sicuramente c’è, ma non grave come pensano alcuni. E non vale certo solo per Grillo, ma per tutti quelli che con un misto di rabbia e autoreferenzialità si sono erti a paladini della libertà di espressione, (tipo Sabina Guzzanti, per non fare nomi).
L’annosa questione ora riguarda la regolamentazione di internet. Delle migliaia di siti chiusi, la maggior parte infrangono la legge, per diffusione di materiale pedopornografico, violazione dei diritti d’autore, propaganda neofascista, discriminazioni di ogni tipo, apologia di reato e compagnia bella. Va detto che cercare di riorganizzare un sottobosco così vasto supera l’umana capacità, tanto che pure sulle fake news, finora, non sono stati raggiunti risultati soddisfacenti.
Se è vero che ogni parte sbraita contro censura e bavagli imposti dai rivali, vale anche l’opposto. In troppi fanno appello alla libertà di espressione, anche se ciò che dicono non sta in piedi sotto nessun punto di vista. Libertà a senso unico, sia chiaro.
Ricordiamo il caso più estremo, l’esecuzione di alcuni redattori di Charlie Hebdo per mano di estremisti islamici offesi dalle vignette su Maometto.
La levata di scudi a difesa di Charlie Hebdo e della libertà di espressione con il motto Je suis Charlie fu unanime. E vuota, visto che in tanti non hanno tardato a rimangiarselo. Sia nella quotidianità che dopo la vignetta dello stesso giornale francese sul terremoto nel centro Italia, dove non era così chiaro se venissero prese di mire le vittime o (com’era in realtà) i costruttori corrotti. Insomma, una doppia morale abbastanza ipocrita.
Alla fine, come disse il commediografo inglese Alan Ayckbourn, “la censura è una cosa buona, perché in tal modo a ogni libro è garantito almeno un lettore attento”.