“San Francisco e la metà degli anni ’60 erano un momento ed un posto speciale di cui fare parte”, scriveva Hunter Thompson in quel libro che avrebbe ispirato il famoso film Paura e delirio a Las Vegas, ripercorrendo nella memoria il periodo di rivoluzione socio-culturale sintetizzata nell’anno 1968.
“C’era follia in ogni direzione, una fantastica, universale sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. E quello era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male. Cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro”.
Del Sessantotto e dei suoi pregi e difetti si è detto tantissimo. Probabilmente è vero quello che scriveva Hunter Thompson su quel movimento di cui aveva fatto parte. Pur tra i molti successi ottenuti si è “ritirato” come la risacca di un’onda. Forse è mancato l’ultimo passo per raggiungere l’obiettivo di una società troppo utopistica, forse aveva ragione Nixon nel parlare di “maggioranza silenziosa” che non aveva tutta quella visibilità e copertura mediatica.
La sovraesposizione sembra essere una costante nei movimenti di rottura. Il poeta/musicista Gil Scott-Heron nel 1970 scrisse The revolution will not be televised, la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione, con tanto di pause pubblicitarie. Un brano di protesta, che invitava all’azione e a non essere spettatori, della TV o di internet a seconda dell’epoca. Purtroppo non sempre la partecipazione è servita allo scopo e nelle occasioni in cui abbiamo assistito (o creduto di assistere) alla rivoluzione in diretta, qualcosa non è andato per il verso giusto.
Per rimanere negli Stati Uniti, il 2011 è stato l’anno di Occupy Wall Street. A pochi passi dalla borsa di New York, migliaia di giovani si sono accampati per protestare contro gli squilibri mondiali causati dalla finanza e dal capitalismo, per cui, in sostanza, l’1% della popolazione detiene la quasi totalità delle risorse economiche e del potere decisionale.
L’ondata di opposizione derivava dalla serie di rivolte nel nord Africa e in Medio Oriente, le allora considerate primavere arabe, partite dalla Tunisia e diffuse rapidamente in Egitto, Libia, Siria, Turchia. Non era la TV – tranne Al Jazeera – ma la rete a farla da padrone. Ci si è illusi che internet avesse un potenziale mai visto prima, in grado di incanalare la rabbia e la partecipazione e contro cui le tradizionali forze politiche nulla avrebbero potuto.
Due anni prima era stata la volta dell’Iran, dove l’Onda Verde scese in piazza contro l’elezione di Ahmadinejad, probabilmente condizionata dai soliti brogli. Si parlò di citizen journalism (giornalismo partecipativo), grazie alle immagini dei cellulari dei manifestanti, che con l’aiuto dei social riuscivano ad aggirare i divieti del regime. Regime che, puntualmente, vinse reprimendo duramente il dissenso.
Nelle primavere arabe invece non furono i vecchi regimi a prevalere (tranne in Turchia e parzialmente in Siria), ma gruppi di opposizione già radicati e organizzati. Così, pure se all’inizio erano stati giovani e donne, le categorie più escluse nella società, a dare vita alla rivoluzione, alla fine sono stati altri a raccoglierne i frutti. Militari autoritari come al-Sïsï in Egitto, terroristi come in parte della Siria e dell’Iraq.
Dopo i fatti di piazza Taksim (Istanbul) nel 2013, generati da proteste ambientaliste prima che politiche, la Turchia è stata teatro nel 2016 di un golpe (più presunto che vero) nel tentativo di destituire il “sultano” Erdoğan. La diretta dura tutta la notte attraverso i vari media, con tanto di video di Erdoğan che via cellulare, nascosto in un posto non riconoscibile, invita alla resistenza. Come fosse un grande evento, la mattina tutto è finito ed Erdoğan ha la scusa per un bel giro di vite contro l’opposizione.
Venezuela a parte – ma qui la copertura mediatica non è alla pari degli altri casi – la situazione più calda cui possiamo relazionarci è in Francia, dove i gilet gialli (gilet jaunes) salgono puntualmente all’onore della cronaca con proteste apprezzate – in Italia – trasversalmente, da Potere al Popolo a Casa Pound, passando per il MoVimento 5 Stelle.
Un primo problema è la spettacolarizzazione dei media, che non riesce a non portarsi dietro un alto carico di fake news. Per esempio, alcune immagini di feriti tra i manifestanti sono in realtà provenienti dalla Spagna, altre sono sì francesi, ma di qualche anno fa, fuori contesto. Come non ci sono realmente cecchini sui tetti pronti a far fuoco e uccidere. Non è quindi vero che le principali testate tacciano sulla violenza perché sono contro il movimento e a favore dei “poteri forti” incarnati da Macron.
Dall’altra parte sono false anche le immagini di una ghigliottina portata in piazza dai gilet gialli. Cioè, sono vere ma appartengono a una protesta contro i tagli alla cultura di un anno fa.
Il secondo problema riguarda il concetto di rivoluzione. Alcune istanze dei gilet gialli sono anche condivisibili, su stipendi, tassazione, pensioni. Altre hanno più un sapore reazionario. L’Unione europea non sta funzionando come si era sperato, la globalizzazione ha finito per aumentare il divario di ricchezza e risorse, ma sono spinte internazionaliste che di per sé si fondano su un’ideologia apprezzabile.
Il mondo cambia e una politica di staterelli isolati è anacronistica, visto che il sistema è fatto di vasi comunicanti. Va aggiustato, indubbiamente, ma su certe cose non si può tornare indietro. Sarebbe come dire che siccome internet ha esaltato diversi problemi, dalle fake news al bullismo, andrebbe eliminato. Sappiamo bene che è stato superato il punto di non ritorno e fare un’inversione a U non è innovativo, è reazionario.
Insomma, per tornare a Gil Scott-Heron, la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione o, per dirla come l’adattamento più contemporaneo del collettivo Wu Ming, su youtube. La rivoluzione non andrà in replica, la rivoluzione sarà dal vivo. Ammesso che mai ci sarà.
Gil Scott-Heron, The revolution will not be televised
https://www.youtube.com/watch?v=qGaoXAwl9kw