L’ebraismo, pur tra gli stereotipi negativi, gode anche di pregiudizi positivi. Su tutti quello dell’umorismo e soprattutto dell’autoironia, dimostrata nel corso dei non facili secoli: dall’antichità alla vita nei ghetti della Russia, poi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, perfino durante il nazismo.
L’artista poliedrico Moni Ovadia, nel suo libro L’ebreo che ride, fa risalire la vena umoristica dell’ebraismo addirittura all’Antico Testamento, non proprio il genere di lettura dove ci si immagina di trovare ironia. Eppure c’è una netta differenza tra l’annunciazione cristiana e quella ebraica.
Abramo e Sarah hanno rispettivamente cento e novanta anni quando l’Arcangelo predice loro la genitorialità, neanche immediata, ma da lì a dieci anni. La reazione istintiva è quella di scoppiare a ridere, di loro stessi.
Dalla diaspora, gli ebrei si sono trovati sparsi tra Europa, nord Africa e Asia, sempre sotto la minaccia delle persecuzioni. Nell’est Europa la vita si svolgeva nei cosiddetti shtetl, villaggi sviluppati intorno alla sinagoga nei quali nascevano e si tramandavano storie umoristiche, le witz, legate spesso a personaggi “fissi”, caratterizzati come le maschere del teatro.
Il rabbino è la quintessenza dell’ebraismo. Coordinatore e controllore delle leggi, studioso delle scritture ma non investito del ruolo di intermediario con Dio – al contrario del clero cristiano. Gode di grande rispetto ma è anche irriso, perché non è esente dai vizi.
Connesso al rabbino è lo shammes, il custode della sinagoga che dirige la liturgia e all’occorrenza è cantore. Nonostante la gerarchia sia definita, lo shammes tende a controbattere le istruzioni del rabbino e anche senza la dovuta istruzione si destreggia come può tra sacre scritture e pettegolezzi.
Al terzo posto nella scala dello shtetl c’è lo shadkhen, organizzatore dei matrimoni – nel senso proprio di colui che li combina. “Da uomo dedito alla felicità del prossimo, sa che non esiste l’unione perfetta ma che tutte le unioni possono essere perfette”, scrive Moni Ovadia. Da “uomo sofisticato”, lo shadkhen categorizza ma “non cade nella trappola delle generalizzazioni”, valorizzando “il particolare, la fattispecie, la devianza”.
Ricchezza e povertà sono due aspetti contrastanti nello shtetl e tuttavia collegati nell’antagonismo. Ma sia il ricco che il povero hanno diverse sfumature. Il “ricco e basta” è “malvagio per antonomasia”, con tutti i difetti che si incontrano nel classico avaro alla Ebenezer Scrooge.
I suoi “nemici” sono prima di tutto gli altri ricchi, in competizione tra loro. Solo dopo arrivano gli shnorrer, che tra i vari poveri è quello che “fa della povertà un vessillo”. È il mendicante, che provoca e sollecita il ricco e si ingegna per beffarlo.
Altre occupazioni caratteristiche sono il sarto e il soldato. Il primo coniuga estro artistico e praticità, seguendo regole precise valide per il cliente quanto per se stesso. Il secondo è qualcosa di completamente avulso dalla tradizione ebraica, ma una forzatura cui si era sottoposti in Europa orientale. Anche perché dopo la diaspora l’ebraismo non ha una vera patria in cui identificarsi e per cui combattere. Le guerre sono fuori dagli interessi dello shtetl, appartengono ai regnanti vari o allo zar.
Franz Kafka, a cavallo tra XIX e XX secolo, saprà cogliere alla perfezione il doppio sradicamento dell’ebreo occidentale. Dalla sua terra di origine e da quella “ospite”, che rifiuta l’ebraismo. Conversioni forzate o espulsioni erano frequenti, ma si poteva scherzare anche su questo.
Due ebrei orientali emigrati a Vienna leggono un annuncio in cui si offrono cento scellini a ogni ebreo che desideri diventare cristiano. Il più coraggioso dei due va per primo a battezzarsi in chiesa, all’uscita l’altro gli chiede prima se si tratti di una pratica dolorosa e poi della cosa più importante: i cento scellini. E l’altro risponde “questo è il problema con voi ebrei, parlate sempre di soldi!”.
Non era infrequente la volontà di essere assimilati dal Paese dove si viveva, per passare inosservati. Un’altra witz narra di un padre che va a trovare il figlio a Londra. Il ragazzo, vedendo che il padre sembra uscito da un manifesto di propaganda antisemita, lo porta dal barbiere per dargli una nuova immagine. Alla fine, cancellata ogni traccia di ebraismo e assunto l’aspetto di un vero britannico, il padre inizia a piangere e il figlio, pentito, chiede perdono in ginocchio, dicendo che mai avrebbe dovuto fargli rinnegare le radici. Al che l’uomo risponde: “piango perché noi inglesi abbiamo perso l’impero!”.
L’ebraismo è stato protagonista più o meno volontario delle ideologie da cui sono scaturiti i due totalitarismi del Novecento, comunismo e nazismo. Nel primo caso un terzo dei delegati bolscevichi al terzo congresso dei Soviet era formato da ebrei, così come buona parte della dirigenza che mise in atto la Rivoluzione. Lenin definiva l’antisemitismo come “socialismo degli imbecilli”, Stalin però non fu del suo stesso avviso. Ne confinò la stragrande maggioranza, ma ne tenne altri nella sua intellighenzia.
Del periodo nazista è stato detto tutto, compreso il commento dell’autore satirico Karl Kraus, “su Hitler non mi viene niente da dire”, a sminuirne la “statura” politica. Anche in questo periodo, come durante le persecuzioni sovietiche, le witz non smettevano di circolare. Tra le tante, quella di un nazista che incrocia un ebreo, lo trascina violentemente davanti a un manifesto che recita “gli giudei sono la rovina della Germania” e gli chiede cosa abbia da dire in proposito. E l’ebreo risponde: “speriamo!”
L’altra ideologia del Novecento è il capitalismo, il “sogno americano” è stato una via di fuga dagli altri regimi. Ovviamente la realtà cozzava con l’idealizzazione che chi partiva si era fatto degli Stati Uniti e si contano centinaia di canzoni di protesta sociale in yiddish, con tema centrale lo sfruttamento del proletariato ebraico. La sovrapposizione ebreo-comunista, con la paranoia dell’immediato secondo dopoguerra e del maccartismo, dura fino agli anni Sessanta.
Ed è qui che l’umorismo si propaga uscendo dai ghetti o dagli shtetl, perché comunque la risonanza che danno gli Stati Uniti a livello globale è indiscutibile. I fratelli Marx, Jerry Lewis, Woody Allen, praticamente tutto Frankenstein Junior (Mel Brooks, Gene Wilder e Marty Feldman), i fratelli Coen o la spiccata autoironia de La Tata, dove emerge la figura della madre ebraica, fissata col trovare alla figlia un marito ebreo e dottore – se il figlio è maschio ovviamente deve diventare lui, medico.
Altro manifesto del “trasformismo” ebraico è Zelig, il mockumentary di Woody Allen dove il protagonista assume la forma dell’interlocutore che si trova davanti.
“Oggi tutti pretendono di ridere sgangheratamente di loro stessi”, scrive Moni Ovadia, “anche gli uomini di Potere, senza possedere i titoli per il diritto all’autoderisione delatoria, titoli che si conquistano solo per mezzo dell’incontro/scontro col divino, con la sofferenza, la persecuzione, l’infinito dolore”.