A Garbatella è pieno di pappagalli verdi. È un nuovo tipo di “Urbana Convivenza”, ma una delle più antiche, prima ancora delle città, è quella che esiste da millenni tra il cane e la persona. L’etologo Enrico Alleva, agli ex Bagni Pubblici di Garbatella nuovo hub culturale di Roma, guida un incontro accompagnandoci in un’affascinante viaggio anti-stereotipi, dalle prime domesticazioni fino alla “zoomania” dilagante di oggi che, come gli zoofili, è contro la parola “padrone”. Ma pure “proprietario” siamo sicuri che è meglio? Poi non pare ‘na macchina?
I primi cani, e quindi la prima domanda. A quando risalgono? “E l’uomo incontrò il cane…” è anche il titolo di un’opera del 1950 dello zoologo austriaco Konrad Lorenz, che “racconta quando questo successe circa 15mila anni fa: la domesticazione del lupo. Dopo la prima, il fenomeno avvenne più volte in varie aree della Terra. Successivamente, dal 500 a.C. al 500 d.C. iniziarono a comparire le razze principali”, chiaramente legate alle loro funzioni, “pastore, da caccia, da guardia. Dal 1200 si moltiplicarono fino ad arrivare alle 400 razze moderne che esistono oggi”.
C’è anche una testimonianza paleontologica, “una sepoltura di 14mila anni fa in Israele dove si può chiaramente vedere un anziano con la mano posata su un cucciolo di cane”. Un indizio importantissimo anche per la storia dell’uomo: bisogna guardare in grande e pensare che “chi per primo ebbe un cane, acquistò un vantaggio evolutivo enorme” . Quanto aiuto poteva dare in termini di difesa, lavoro, caccia…
Lupi che furono quindi appositamente scelti per la domesticazione, rispetto ad altri, per delle caratteristiche specifiche, in particolare quelle socio-cognitive, e soprattutto una, la loro capacità di leggere la mente… come dimostrato da testi importanti, da L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo del naturalista inglese Charles Darwin del 1872 fino ad arrivare ai più recenti contributi The domestication of social cognition in dogs (2002) dell’antropologo americano Brian Hare e altri autori.
Fu proprio “il grande salto scientifico della reciprocal mind reading”, e cioè la scoperta che la comunicazione non avviene soltanto all’interno di una stessa specie: “due specie diverse possono comunicare e hanno anche la reciproca capacità di modificare gli stati emozionali dell’altro”.
Nel “test della scelta dell’oggetto” il cane ha dimostrato una cosa fondamentale e cioè l’essere “molto più capace nel capire quello che l’uomo intende fare, rispetto allo scimpanzé”, nonostante sia la nostra specie più prossima. Per capire l’avvenimento di questo meccanismo, cani, lupi e scimpanzé dovevano cercare di intendere l’oggetto voluto dall’uomo, e si è dedotto che “perfino il lupo azzecca di più dello scimpanzé”. Un’ulteriore prova di “acquisizione di qualcosa in più a partire dal lupo”, la complessa “capacità canina di interpretazione socio-comunicativa dell’essere umano”, una cosa che, insomma, talvolta perfino molti di noi ne sono carenti!
Questa predisposizione canina è un vero e proprio tratto distintivo: a riprova di questo “nel passato furono allevate delle volpi sperimentalmente con tratti di minore paura e aggressività. Fu interessante notare che questi tratti”, comuni anche ai primi cani rispetto ai lupi, “si accompagnavano a cambiamenti non solo comportamentali, ma anche fisiologici e morfologici, che le facevano proprio rassomigliare ai cani”, a livello di muso.
La sperimentazione canina è stata ormai abbandonata, “già dagli anni ’90 era usata in minima parte perfino per motivi medici, e perfino per malattie che li riguardano. Oggi per esempio non lo si fa più neanche per malattie molto gravi, come l’Aids felina”. Il che, agli occhi di un ricercatore, appare un po’ una contraddizione, uno sfruttamento egoistico: “sperimentare per guarirli no, ma usarli per curare noi sì”, riferendosi ai due tipi di pet-therapy ormai diffusi e che prevedono l’assistenza degli animali per attività specifiche o vere e proprie terapie.
Questo “sfruttamento” è soprattutto vero per il cane che, non solo grazie alle sue capacità, fu da subito in grado di instaurare un rapporto privilegiato con l’uomo, rispetto a tutti gli altri animali. Dando origine perfino a “rapporti famosi” come quello tra Byron e Freud e i loro rispettivi cani, grandi autori che contribuirono alla prima letteratura sul tema. Ma mai come oggi e mai come il gatto, il cane assolve a funzioni molteplici e sempre più complesse, basti pensare alla lotta antidroga, antiterrorismo, la ricerca alpina o in zone terremotate, ma soprattutto a tutte quelle attività che lo esaltano nella sua funzione (e natura) principale di compagnia e accompagnamento.
Compagnia che talvolta diventa patologica. “Viviamo in un’era segnata dalla tendenza alla zoomania“, già descritta come deriva dell’animalismo negli anni ’80, “questa rarefazione del rapporto umano rispetto a quello animale. Finché il padrone non riesce ad avere più rapporti se non di tipo autoreferenziale. Perché è molto più facile avere un rapporto con un essere che dipende da te in tutto e per tutto, rispetto a un essere umano indipendente”. A quel punto il fatto di definirsi “proprietari”, piuttosto che “padroni”, come propongono gli zoofili, è del tutto secondario. Principale sarebbe l’attenzione alla loro cultura alimentare spesso a rischio (non sono persone) e al loro benessere psicofisico generale che passa anche dalla possibilità di esprimere con naturalezza tutto quello che possono essere o diventare (per esempio, se la sterilizzazione è proprio necessaria, che prima abbiano avuto i cuccioli almeno una volta).
Per il cane la cosa più importante è e rimane la possibilità che abbiamo noi di dargli compagnia. Ma come non considerare il risvolto della medaglia, ovvero l’aggressività?
(Continua con Il cane più pericoloso? Anche questo è razzismo)