L’open space è uno spazio di lavoro comune realizzato con il chiaro intento di mettere insieme più cervelli per una massima e condivisa funzionalità. Qui le idee circolano più liberamente che nei classici uffici con i divisori. O così si credeva.
Meno interazioni
Ideale e reale, teoria e pratica, purtroppo non sempre coincidono e i fatti sembrano aver portato in una direzione imprevista. Non che il gioco di squadra sia sopravvalutato, ma in media gli impiegati hanno dimostrato di gradire di più l’intimità del loro spazio privato rispetto all’assenza di barriere. Per cui, paradossalmente, sono diminuite le interazioni faccia e faccia e si preferisce ricorrere ai mezzi di comunicazione elettronici.
Ethan Bernstein e Stephen Turban, della Harvard Business School, hanno condotto un’indagine in cinquecento aziende in transizione verso l’open space, arrivando alla conclusione, grazie all’uso di apparecchi in grado di captare il contatto visivo e le conversazioni, che il rapporto diretto è diminuito addirittura del 70% .
Troppe distrazioni
Nelle prime due settimane con le postazioni classiche, la media degli scambi dal vivo era di 5,8 ore al giorno. Nelle due settimane successive, con il passaggio all’open space, si è scesi a 1,7 ore. Contestualmente, la messaggistica istantanea è incrementata del 67%, le mail sono aumentate del 56% e perfino la lunghezza dei testi è cresciuta del 75%.
Le conclusioni dei due accademici sono che gli open space tendono a essere sovrastimolanti. Troppe distrazioni, troppe informazioni, movimenti di persone, occhi che inevitabilmente finiscono per fissare il tuo monitor, orecchie che non possono far altro che ascoltare. Insomma, la paura di essere “spiati” fa chiudere gli impiegati a riccio. Oppure, altro fattore, vedere un collega molto indaffarato inibisce le richieste che spezzerebbero brutalmente il ritmo di lavoro. E alla fine di tutte le considerazioni, non scaturiscono reali vantaggi per la produttività.
Meno identificazione aziendale
Martina Loew, docente di Pianificazione e Sociologia dell’Architettura presso l’Università Tecnica di Berlino, aggiunge un altro fattore. Dagli studi svolti, emerge come i dipendenti sentano meno appartenenza aziendale, se privati del loro spazio personale. “L’identificazione con un luogo non è solo una dimensione sociale, ma anche spaziale”, afferma la Loew.
Inoltre, c’è il rischio “competizione” per accaparrarsi i posti migliori, magari vicini a un collega simpatico, alla finestra o più riservati. “La concorrenza peggiora i rapporti e la comunicazione in ufficio, anziché migliorarli”.
Soluzioni miste
Ovviamente conta la qualità più che la quantità delle interazioni. Colossi come Apple o Facebook sono grandi fruitori degli open space, ma non tutte le imprese viaggiano a certi livelli, anzi. Così nel frattempo si stanno elaborando nuove teorie che migliorino i rapporti, come un bilanciamento tra spazi comuni e privati o il concedere la possibilità di lavorare da remoto – opzione spesso resa neccesaria dalla pandemia. Senza così dover per forza rimanere nell’inferno tragicomico di cui la serie Camera Café si faceva beffe.