“Gli storici, come i giornalisti, si concentrano sulle persone più importanti, tralasciando le piccole azioni ordinarie che non fanno notizia. Perché ho scritto un libro di Storia? Perché non ce n’era uno uguale”, si tratta di Storia di un popolo dal 1492 a oggi, pubblicato nel 1980 da Howard Zinn e pietra miliare del settore. Zinn è stato uno di quegli storici che ha corretto l’ottica della narrazione, affiancando il protagonismo degli ultimi ai grandi eventi e personaggi.
Da schierato mai allineato, Zinn ha sofferto la propaganda dei media statunitensi – cosa che vale ovunque, ma in certi posti un po’ di più – forieri di un messaggio di giustizia e virtuosità della Nazione. “Gli spettatori crescono con questa idea”, ma dietro a grandi traguardi, come il miracolo economico o la crescita industriale dopo la Guerra Civile, ci sono stati sfruttamento di immigrati cinesi e irlandesi, scioperi repressi nel sangue come il massacro dei minatori di Ludlow, Colorado, del 1914 o le battaglie (vinte) degli operai tessili.
Tutte lotte che, sommate ai movimenti civili degli anni Cinquanta e Sessanta, hanno condotto a un lento ma inesorabile progresso che non ha fatto perdere l’ottimismo a Zinn, almeno sul lungo periodo. A guardare le notizie internazionali le cose sembrano andare sempre male, ma se dei cambiamenti ci sono stati, altri ne saranno possibili. “L’importante è che continuino ad esserci persone consapevoli e a cui non sta bene quello che succede”.
Nato nel 1922, Howard Zinn si è arruolato nell’aviazione militare durante la Seconda Guerra Mondiale. All’epoca appariva un atto dovuto, per sconfiggere un demone terribile come il nazifascismo. È stato uno di quelli che ha bombardato a tappeto mezza Europa, ma a riguardarsi indietro la sua prospettiva è cambiata. Non perché quella non fosse una guerra “giusta”, se mai ne esistano, ma per come sia stata condotta la strategia di zio Sam.
La Storia del conflitto è stata scritta nel nome del nazionalismo, rimarcando le (vere) atrocità dell’Asse ma non quelle degli Alleati, Stati Uniti in prima fila. Non solo la distruzione indiscriminata portata, ad esempio, a Roma e Berlino con la scusa di colpire gli obiettivi militari (come San Lorenzo?), quanto soprattutto il gran finale, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, giustificate dal fatto che una fine rapida avrebbe risparmiato vite. “Appare probabile che il Giappone fosse comunque sul punto di arrendersi. Avremmo sacrificato 100 mila ragazzini americani per velocizzare la conclusione della guerra? Ovviamente no”, non ci sono state le stesse remore con i giapponesi.
Stessa logica dopo l’undici settembre 2001. “Il mondo ha giudicato Bush peggio di Bin Laden e Hussein perché non ha risposto al terrorismo come se fosse una ‘normale’ operazione di polizia internazionale, ma ha ucciso migliaia di civili in Afghanistan e Iraq senza danneggiare Al Qaeda o il terrorismo” se non in tempi lunghissimi. Anche se poi dal caos iracheno è venuto fuori il Daesh, che Zinn non ha potuto vedere.
In mezzo il ricordo di azioni cruente in America Centrale, come El Salvador e Guatemala, più il famigerato Vietnam. I media, ovviamente quelli maggiori, hanno troppo spesso evitato di documentare la realtà globale dei fatti, specialmente dopo l’undici settembre. Nel 2001 fu addirittura abbattuta la sede di Al Jazeera a Kabul, per fortuna senza vittime. Secondo un memorandum fatto filtrare nel 2006, Bush avrebbe provato a convincere Tony Blair a fare lo stesso con la sede centrale di Doha. Motivo: le immagini troppo deprimenti delle vittime civili, che avrebbero potuto turbare le coscienze.
“La guerra è come una droga”, diceva Zinn, “una soluzione rapida alle situazioni di disagio, che non porta a ragionamenti approfonditi e risposte alternative”. E che fomenta la visione epica di una società che venera gli eroi combattenti “confondendola con il patriottismo, di cui abbiamo un’idea deviata. Non è onorare la bandiera o appoggiare aprioristicamente il Governo. Anzi, quando un Governo non persegue uguaglianza, libertà e benessere è dovere del popolo rovesciarlo e sostituirlo”.
Alcuni argomenti restano a lungo tabù, per questo inizialmente il libro di Zinn non si è diffuso nelle scuole e non tanto per la riluttanza degli insegnanti. Nel primo capitolo si denunciano i crimini di un mito come Colombo, genitori e commissioni degli istituti erano contrari, “pensavano fossi un comunista”. Le cose sono cambiate negli anni, nelle scuole ormai da tempo si parla di storia dei neri, delle donne, non certo per l’opera di Zinn, ma come lento risultato delle lotte dei movimenti per i diritti civili.
Cui Zinn diede il suo contributo, da professore al collegio femminile Spelman in Georgia, nel Sud segregazionista. “Soffrivamo quella situazione anche se non eravamo rivoltosi. Attuammo una campagna per ‘dis-segregare’ la biblioteca di Atlanta. Piccoli gesti, ma le piccole azioni costruiscono, costruiscono, costruiscono e magari alla fine qualcosa si compie”, come la nascita dei Freedom Riders.
La democrazia deve essere attuata, non basta un articolo nella Costituzione. Ad esempio, negli Stati Uniti il quattordicesimo e quindicesimo emendamento garantivano diritti ai neri già dall’abolizione della schiavitù, ma dovettero passare cento anni prima della loro effettività. “Per i lavoratori ancora peggio, la Carta non prevedeva soluzione ai bisogni economici delle persone”.
Come fare per uscire dalla manipolazione storica? Non si tratta solo di evitare la mistificazione dei fatti, “se dici qualcosa di falso si può verificare”. È quando ometti che non si viene a sapere, per esempio “nella Guerra di Secessione gli Unionisti non combattevano solo i Confederati schiavisti, ma anche gli indiani. Hanno compiuto massacri, conquistato terre. Ma i nativi americani, come i neri, le donne, i lavoratori, gli omosessuali, sanno cosa è rimasto fuori dai libri di Storia”.
Il ricordo migliore di Zinn, oltre che dal documentario Non si può rimanere neutrale su un treno in movimento, viene forse dal famoso linguista e teorico della comunicazione Noam Chomsky. “Ha lasciato un grande contributo alla cultura morale e intellettuale americana. Ha cambiato le coscienze in una maniera altamente costruttiva. Non posso veramente pensare a nessun altro a cui paragonarlo per il senso di rispetto”.