Pur tra i pregiudizi e le discriminazioni che ancora persistono, più o meno tutti capiscono la logica mentale che porta al cambiamento di sesso, soprattutto per quanto riguarda l’operazione per il passaggio da uomo a donna. I genitali maschili sono percepiti come non propri e vanno rimossi. In fondo non sono fondamentali, altrimenti dovremmo affermare le donne avrebbero svantaggi in partenza. Altro discorso vale per la patologia mentale che porta a ritenere estranee parti del corpo con una funzionalità ben diversa, come gli arti o gli occhi. È il cosiddetto Disturbo dell’integrità dell’identità corporea o Biid, (Body Integrity Identity Disorder), noto più brevemente come transabilità.
Fuori dagli elenchi delle malattie, la Biid ha cause ignote, che gli studiosi non sanno ancora se classificare come neurologiche o psicologiche – o una combinazione delle due. Ciò che invece è chiaro è che la visione del proprio aspetto non rispecchia quella ideale che si ha di sé, ma, a differenza della crisi sull’identità sessuale, si arriva al desiderio di una qualche disabilità. La distorsione sembra apparire nei soggetti affetti già nella prima infanzia, spesso entrando a contatto o per legami familiari con persone con problematiche perfino temporanee – come la rottura di un piede – ma la ricerca di una soluzione drastica arriva con una maggiore maturità.
Nel 1977 gli psicologi Gregg Furth e John Money descrissero una condizione simile, ma legandola primariamente al desiderio erotico, chiamandola apotemnofilia. Nel 1986 lo stesso Money teorizzò l’acrotomofilia, che invece accresce l’attrazione sessuale verso potenziali partner con mutilazioni. Dopo quasi vent’anni, nel 2004, Michael First pubblicò la prima ricerca clinica, in cui osservava una cinquantina di persone con quello che avrebbe definito come Disturbo dell’integrità dell’identità corporea, alcuni dei quali già con amputazioni avvenute. Dallo studio di First si capì che si andava ben oltre la semplice pulsione sessuale.
L’attenzione sulla Biid – non ancora nominata tale – si era accesa nel 1990, dopo che il chirurgo scozzese Robert Smith operò due persone amputandone gli arti perfettamente sani e funzionali, scatenando dibattiti sull’etica. Altre storie sono poi finite sotto i riflettori. Chloe Jennings-White, nel Regno Unito, intende operarsi al midollo spinale per smettere di camminare. Ha trovato qualcuno disposto all’intervento, ma tutto è congelato per gli elevati costi. Jewel Shuping, in Carolina, è invece andata fino in fondo, diventando cieca grazie all’aiuto di un anonimo psicologo che le ha permesso di applicarsi gocce corrosive.
La medicina ufficiale (se mai esistesse una non ufficiale) si è dichiarata contraria a soddisfare le pretese di chi è affetto da Disturbo dell’identità dell’integrità corporea, anche perché si tratterebbe di procedure irreversibili. La stessa Shuping, pur felice dell’esito, sconsiglia i soggetti con la patologia dall’agire di impulso, sperando in rimedi per il disturbo in tempi brevi. Ma prima serve il riconoscimento, questo sì ufficiale, come malattia, per poter sviluppare terapie finalmente significative.
Ed è l’obiettivo di First, perché i soli rifiuti ad operare non bastano. O si trova qualcuno comunque disposto a farlo o si aggira l’ostacolo, come ha fatto David Openshaw, immergendo la gamba indesiderata nel ghiaccio per ore, costringendo così i medici all’amputazione. Lo studioso australiano Christopher James Ryan si è invece schierato a favore delle operazioni, perché se i pazienti sono soddisfatti allora cade la questione etica.
Qualcuno ha accostato la transabilità alla transessualità dal punto di vista etico, anche se, come detto, il paragone non regge, perché la funzionalità effettiva nel secondo tipo di cambiamento non viene minata. Né si possono fare paragoni con l’eutanasia, visto che il fine vita non concerne soggetti nel pieno delle facoltà fisiche – altrimenti potrebbero suicidarsi.
I rischi associati al Disturbo dell’integrità dell’identità corporea “sono estremi”, dice la dottoressa Anna Sedda, dell’Università Heriot-Watt di Edimburgo, “dovremmo capire cosa fare per questi individui perché non è giusto che soffrano in questa maniera e mettano a repentaglio la loro vita”.