Utopia era lo Stato/isola ideale immaginato e descritto nell’omonimo romanzo di Thomas More del 1516. Diviso in 54 città, riferimento alle 54 contee inglesi, questo non-luogo (u, privativo, topos = luogo) era privo di tensioni sociali e tutti i suoi abitanti concorrevano al benessere collettivo. L’organizzazione (pre)autarchica è stata inseguita spesso ma mai raggiunta realmente, almeno non fino in fondo.
Abbiamo parlato di Marinaleda, comunità andalusa perfetta per risolvere i problemi di affitto e dell’ambiente, ma più identificabile come cooperativa agricola, anche se non è ovviamente l’unica occupazione possibile. Si sono addirittura aperti all’informatica e allo sport.
Uno degli esempi più famosi di città-utopia è Christiania, all’interno di Copenaghen, tentativo di diventare Stato a sé, quando nel 1971 gli hippy iniziarono con l’occupazione di una caserma per poi espandersi in tutto il quartiere circostante. Fondata sugli ideali della controcultura tipici di fine anni ’60, Christiania ha puntato a sconfiggere la “povertà materiale e psicologica”, secondo quanto scritto nel suo manifesto.
Non solo la legge ha mano a mano riportato in vigore la proprietà privata, consentendo ai residenti di comprare gli immobili a prezzi calmierati, ma peggio ancora le gang di motociclisti si sono contese il mercato della droga, anche quella pesante. Christiania resta comunque la seconda destinazione turistica di Copenaghen, con uno stile di vita quasi intatto e una forte presenza artistica.
Utopia meno nota è quella di Auroville, nell’India meridionale, concepita dal guru e maestro di yoga Sri Aurobindo – da cui il nome – e sviluppata architettonicamente da Roger Anger, allievo di Le Corbusier. Tanto per cambiare votata all’anticapitalismo e all’antimaterialismo, Auroville ha finito con l’essere invasa da occidentali in cerca della pace interiore. Nonostante l’impatto ambientale quasi zero, anche questo luogo ameno è stato rovinato dalla corruzione dai crimini sessuali e dalle discriminazioni contro gli abitanti di etnia Tamil.
Meno attraente dal punto di vista estetico, tra asfalto e deserto, è Slab City, più che una città un raduno di camperisti (nel migliore dei casi) nel sud-est della California. Eppure questo luogo è dotato persino di un campo da golf di dimensioni ridotte, otto buche contro le consuete diciotto. L’area, del resto, è tutto fuorché consueta. Anche Slab City nasce sulle ceneri di una base militare abbandonata, ma l’ispirazione anarchica dell’ultimo luogo libero d’America, come viene definito, non ha portato alla realizzazione dell’utopia.
Descritta dal Time come “scenario alla Mad Max, la serie di film dall’ambientazione post-apocalittica, Slab City vede spesso il riutilizzo di materiali di scarto per le abitazioni e la forte presenza, oltre ai soliti artisti, anche di disadattati, barboni e tossicodipendenti. La popolazione è aumentata a maggior ragione con la crisi del 2008, sia con residenti momentanei che stabili, che hanno preferito sopportare una vita senza comodità e tecnologia di base, come l’elettricità, pur di sfuggire ai debiti.
Oltre al caldo asfissiante e agli animali pericolosi del deserto, Slab City ha anche un tasso di criminalità abbastanza alto: proliferano omicidi e laboratori di crystal meth (metanfetamina) in stile Breaking Bad. Ma a dire il vero non va neanche troppo peggio rispetto ad altre città statunitensi con un “normale” sistema legale. Periodicamente il governo di zio Sam prova a riprendere il controllo di un terreno ormai svalutato che per questo non trova acquirenti realmente interessati, così la vita di quest’aggregato senza spese affittuarie è sempre sul filo.
Nessuno di questi esperimenti può considerarsi completamente riuscito tanto da essere esportato, ma anche se la comunità ideale viene vanamente inseguita da secoli non è detto che un giorno utopia non abbia un’altra definizione sul vocabolario.