“È stato calcolato che Daniele Luttazzi – nel suo periodo d’oro, inizi del 2000 – avrebbe pesato per l’8% sull’opinione pubblica”, riportava il giornalista emiliano Andrea Mareschi. Tralasciando l’attendibilità o i metodi di calcolo del dato, in quel determinato contesto la satira sembrava il vero contraltare allo strapotere della politica e l’antidoto al vuoto (presunto) dell’informazione. La confusione è nata lì, probabilmente.
Il primo a ufficializzare questo calderone unico è stato uno a cui i primati piacciono eccome, Silvio Berlusconi, che nel lontano aprile 2002 lanciava il famoso “editto bulgaro”, in cui, con un abile giro di parole, licenziava due giornalisti non suoi dipendenti, Enzo Biagi e Michele Santoro, più il comico Daniele Luttazzi.
La satira veniva consacrata con un riconoscimento di cui non avrebbe avuto bisogno e praticamente parificata all’informazione. Una dichiarazione di guerra della politica alla comicità che non aveva avuto precedenti. Imitazioni e battutine sui protagonisti della cosiddetta “Prima Repubblica” c’erano sempre state, ma da una parte il sistema era più saggio nello stare al gioco, dall’altra c’era molta censura preventiva, dei media e degli autori stessi.
Luttazzi diventa martire della censura, prima di sparire quasi del tutto per questioni di plagio (ma è un’altra storia). E la satira inizia a prendersi troppo sul serio, perdendo proprio la sua caratteristica fondante. Una finalità che si esaurisce in se stessa, senza pretesa di cambiare il corso degli eventi, compito di altri. Aristofane non ha fermato Cleone, nel Medioevo nessuno ha scalfito papi e imperatori così come Charlie Chaplin e Karl Kraus non potevano contrastare Hitler.
Troppa autoreferenzialità? Forse. Qualcuno ha anche messo a rischio la propria carriera, perdendo in lucidità per rincorrere la sua balena bianca come un capitano Achab (Sabina Guzzanti?). Altri l’hanno rimodellata in chiave di commentatore politico (Maurizio Crozza?) per uscire dall’alone di leggerezza. Qualcuno ha unito satira, informazione e politica per reinventarsi completamente.
Il blog di Beppe Grillo nasce con chiari intenti di controinformazione, ripresi anche nei suoi spettacoli, sempre meno comici e sempre più comizi. Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, i politici – non solo Berlusconi – cercavano di sembrare simpatici, di fare la battutina. Per forza poi i ruoli si sono confusi.
Il giornalismo si è trovato messo in mezzo. Vicino al ruolo di opposizione e di denuncia che è anche della satira ma messo in crisi dall’informazione che quest’ultima ha preteso di fornire. Vicino al linguaggio politico, istituzionale e legato a doppio filo alla realtà dei fatti – cui la comicità invece non è invece ancorata fino in fondo. Così molti giornalisti si sono buttati in politica e continuano a farlo, altri si esibiscono in spettacoli a teatro, rubando il palco a chi di mestiere.
È vero che la società è fluida – o liquida come hanno tutti ricordato su Facebook dopo la morte del sociologo Zygmunt Bauman – ma la distinzione dei ruoli ha un senso e la risata è il parametro. La satira può anche usare i fatti come mezzo, ma non come fine che, appunto, è divertire il pubblico. I media (e in teoria la politica) hanno l’informazione come obiettivo. Che poi possano usare l’umorismo come mezzo è ininfluente – certe volte sarebbe meglio di no.
Consola, ma non troppo, sapere che non è una questione solo italiana. Sul magazine newyorchese Time, nel novembre 2014, veniva pubblicato un editoriale di James Poniewozik che cercava di convincere il comico britannico ma trapiantato oltreoceano John Oliver su come la sua satira fosse un mezzo di informazione e che di conseguenza lui sarebbe potuto rientrare di diritto nella categoria dei giornalisti.
Accuse respinte al mittente.