Le fake news sono l’allarme del momento. Un sondaggio effettuato dalla Bbc in 18 Paesi di tutto il mondo rivela che il 78% degli intervistati si sente preoccupato, in maniera più o meno seria, dalla proliferazione di queste notizie. Nel campione di Stati scelti per l’indagine manca l’Italia, ma già da tempo si capisce come un nodo fondamentale della propaganda elettorale 2018 saranno proprio le bufale.
Collegata a questo problema c’è la regolamentazione di internet. Lo stesso sondaggio mostra come il 58% sia contrario a un’azione di controllo dei governi sulla rete, coacervo vero o presunto di tutte le fake news, ma soprattutto fonte di informazione primaria per buona parte della popolazione. Secondo uno studio pubblicato da Hunt Allcott e Matthew Gentzkow ben il 62% degli statunitensi attinge direttamente dai social network.
Timore delle fake news e libertà di internet: per alcuni è un controsenso, per altri no, perché anche i media tradizionali, giornali, radio, tv, falsificano l’informazione. Vero tutto, ma si mettono insieme diversi livelli di disinformazione, creando quello che il cuoco (e giudice di MasterChef) Bruno Barbieri chiamerebbe “mappazzone”, accozzaglia di ingredienti buttati a caso senza logica e armonia.
Le tecniche di propaganda, politica o mediatica, sono vecchie quanto il mondo, ma alla fine la manipolazione quanto incide realmente? Prendiamo le prime elezioni italiane a suffragio universale, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
In un contesto già di guerra fredda, nel 1948, la Democrazia Cristiana screditava il rivale Partito Comunista tirando in ballo lo spauracchio sovietico in caso di vittoria dell’estrema sinistra. Probabilmente falso, l’Italia era già nello scacchiere occidentale e difficilmente questa situazione sarebbe cambiata. I fatti hanno dato ragione alla campagna elettorale democristiana, ma quanti voti saranno stati effettivamente spostati? È possibile anche che chi abbia votato Dc, pur inizialmente indeciso, in fondo propendesse già per un centrismo ambiguo, confermato nei 70 anni a seguire.
Questa può essere una tipologia di comunicazione che ora considereremmo antenata delle fake news, ma non è proprio così. Non si basa su fatti mai accaduti e spacciati per veri, ma sulla sensazione. Molto più sottile e intelligente, più sfumata, perché non è dimostrabile la bugia.
Altra cosa ancora è l’interpretazione dei dati. La matematica non sbaglia, ma le chiavi di lettura possono essere molteplici. Poniamo che un governo X si vanti dell’aumento dell’occupazione di tot unità, mentre l’opposizione Y controbatta che la percentuale della disoccupazione sia contestualmente cresciuta. Non si può dire che l’esecutivo menta, semplicemente propone una visione parziale per cui gli occupati incrementano sì, ma a un tasso minore rispetto all’aumento della popolazione. Erroneamente potrebbe essere bollata come fake news.
Un ulteriore fattore è la velocità dell’informazione che spinge a una gara allo scoop, a scapito dell’accuratezza. Avevamo già scritto di come il Natale di Rozzano non fosse mai stato a rischio, che non fosse stato annullato il concerto tradizionale ma solo respinta la richiesta di alcune madri di fare lezioni di canti religiosi durante la ricreazione. Una non-notizia più che una fake news, resta solo il dubbio tra la buona fede e la consapevole strumentalizzazione politica.
Insomma tutti i tipi di manipolazione finiscono nello stesso calderone delle notizie inventate di sana pianta, credute perché “comunque verosimili, non importa che non sia mai successo”, la giustificazione media degli utenti che le condividono. Non a caso “post-verità”, ovvero l’ininfluenza della veridicità di un fatto, è stata la parola dell’anno 2016 secondo l’Oxford Dictionary.
Ma il punto è: le fake news sono realmente preoccupanti? Possono giocare un ruolo fondamentale nella propaganda elettorale e spostare voti, come si crede sia successo a favore di Donald Trump e della Brexit? La preoccupazione vera dovrebbe essere sulla semplificazione delle argomentazioni, sul fatto che i ragionamenti nelle tribune politiche annoino.
Un esempio attuale, anche se quasi storia visti i tempi rapidi della rete: Roberto Burioni. Il medico pro vaccini è diventato un paladino della scienza con tanto di pagina dedicata perché… offende su internet. Comprensibile la sua frustrazione, ma dare dell’ignorante medievale non convincerà mai dell’importanza del vaccino chi non la pensa come lui. Molto meglio fare come il curatore (o i curatori) del profilo twitter dell’Unicef, che si è messo a rispondere punto per punto a ogni contestazione che gli veniva mossa, motivando e smontando falsi miti e stereotipi su migranti e attività delle Ong.
Difficilmente le fake news spostano consenso, per un semplice motivo. Chi ci crede lo fa perché è portato a credere a quel tipo di notizia, ha già quell’idea e cerca una conferma. Sei contrario all’immigrazione? Allora ti sembrerà plausibile leggere ogni tipo di brutalità da loro commessa, dai biglietti del treno non pagati agli stupri – che pure sono avvenuti. Chi la pensa al contrario metterà subito in dubbio la notizia, ma anche qualora questa venisse confermata non cambierebbe opinione, perché un conto sono i singoli, un conto il quadro generale.
Lo stesso può avvenire a parti inverse, chiaro, ognuno ha qualche gruppo su cui puntare il dito e non aspetta altro che un passo falso per vedere la categoria alla berlina: immigrati, banchieri, poliziotti, finanzieri, imprenditori, medici, vegani, musulmani, israeliani, preti, politici di destra, di sinistra, pentastellati ecc. ecc.
È la stessa ragione per cui leggiamo un giornale e non un altro, guardiamo una trasmissione e non un altra, per cui i tormentoni dei comici o i finali scontati dei film hanno successo, per cui ci aspettiamo i grandi classici più che le nuove canzoni ai concerti. Serve a rassicurare, a rinforzare un’idea che ci sconvolgerebbe mettere in dubbio.
Non basta solo una fake news ad alterare equilibri già assodati.