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La comunicazione ai tempi della tragedia

“C’è ancora una parte del Paese che non considera la comunicazione del settore pubblico”, afferma Stefano Cianciotta, professore all’Università di Teramo e presidente dell’Osservatorio Nazionale delle Infrastrutture. “È un problema culturale della pubblica amministrazione, prima che di bilancio”. Soprattutto nel racconto della tragedia.

C’è una legge che disciplina la comunicazione delle istituzioni pubbliche, la n. 150 del 2000, ma per Cianciotta “è nata già vecchia, non contempla le emergenze”. Ed è un’incongruenza particolare, visto che l’86% del territorio italiano presenta criticità morfologiche e rischi di varia natura.

Di ambiente non si parla molto, per usare un eufemismo. Secondo gli studi dell’Osservatorio presieduto da Cianciotta occupa appena il 6% dell’agenda setting. Tranne quando la tragedia non è più alle porte, è entrata prepotentemente. E la narrazione è squilibrata. Prendiamo il caso dell’hotel Rigopiano, travolto da una slavina il 18 gennaio 2017.

Secondo quanto riporta Cianciotta, il dramma ha monopolizzato l’informazione (23% dell’agenda), a sua volta suddiviso per il 50% in cronaca, 28% soccorsi, 16% polemica e solo 6% parere degli esperti. Come ha lamentato il giornalista Luca Sofri, l’inettitudine mediatica è evidenziata da uno squilibrio che nello storytelling favorisce un’emozione precostituita, confezionata, non suscitata in maniera spontanea.

Di ambiente se ne parla poco o male. La tragedia di Rigopiano ha monopolizzato l’agenda mediatica, ma ha distorto la comunicazione sul sensazionalismo e la polemica

Il sensazionalismo a sua volta vive un derby tra chi minimizza e chi crea allarme fin troppo eccessivo, l’ago della bilancia dovrebbe essere “l’allerta”, suggerisce Angelo De Nicola, giornalista aquilano, che ha vissuto direttamente il terremoto del 2009 e tutto ciò che intorno si è scatenato.

La comunicazione di quella tragedia è stata quanto di più sbagliato si potesse fare, dal periodo dello sciame che ha portato al sisma del 6 aprile al post-evento. Il processo alla commissione Grandi Rischi ha fatto il giro del mondo, tutto è ruotato intorno all’intervista all’ingegnere Bernardo De Bernardinis. Prima della riunione della commissione di esperti, De Bernardinis ha parlato della positività di quello sciame, del rilascio favorevole di energia, ostentando tranquillità e invitando anzi la popolazione a bere l’ottimo Montepulciano della zona, in tutta spensieratezza.

Una settimana dopo sarebbero morte 309 persone, il contenuto di quell’intervista è stato messo sotto la lente della magistratura, in quanto si è ritenuto che queste rassicurazioni abbiano potuto interrompere le normali procedure di sicurezza che i cittadini erano abituati a compiere sentendo le scosse, come tenere pronte le borse con gli effetti personali per scendere prontamente in strada, il kit di pronto intervento, torce, batterie, medicinali, coperte.

Vero è anche che quell’intervista è stata decontestualizzata, poteva essere prima come dopo la riunione. Si evinceva da alcuni passaggi che fosse precedente, ma non era abbastanza sottolineato e a un orecchio un minimo distratto sarebbe potuto sfuggire. Insomma, ha sbagliato certamente De Bernardinis a prendere sotto gamba la situazione – unico condannato in Cassazione infatti – ma qualche responsabilità mediatica c’è stata.

Guido Bertolaso, ex direttore della Protezione Civile. Pur tra le critiche ha portato avanti una nuova immagine della comunicazione nella tragedia

Anche il racconto della ricostruzione, della ripartenza, ha avuto problemi, segno che dagli errori non sempre si impara. O si è mostrato il peggio o il meglio, o i ritardi o i primi successi, senza un quadro di insieme completo. Per poi tacere del tutto una volta svanito l’interesse. La soluzione di De Nicola, facile e difficile al tempo stesso, è “tenere accesi i riflettori senza che ci sia un circo mediatico”.

Della tragedia aquilana sono rimasti alcuni simboli che più di altri hanno colpito e condizionato la narrazione. La casa dello studente, 7 morti compreso il custode, ha distrutto la fama universitaria della capoluogo abruzzese, come è accaduto per altri motivi a Perugia, con l’omicidio Kercher. Il crollo dell’abside della basilica Santa Maria di Collemaggio, che ha fatto scoprire come L’Aquila fosse la sesta città italiana per numero di monumenti. E la figura in felpa di Guido Bertolaso, che ha dato alla Protezione Civile una nuova immagine, di operatività e di referente della comunicazione, pur tra consenso e critiche.

Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, è stato un altro personaggio emblematico di reazione alla tragedia. Sicuramente è stato abile ad attirare su di sé e sul suo Paese l’attenzione di un sisma ricordato più per Amatrice che per il vero epicentro, Accumuli. Anche lui sempre in felpa, immagine che si discosta molto da quella in giacca e cravatta dell’allora sindaco aquilano Massimo Cialente, che sembrava porre una frattura tra popolazione e istituzioni.

Il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi, sulla scia di Bertolaso ha portato avanti un modello più efficacie di comunicazione della tragedia

Affiancata alla visibilità nazionale, che può essere distorsiva, da settembre 2016 è nata Radio Amatrice, progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di dare speranza, combattere la paura e soprattutto raccontare la realtà locale, dove la prossimità territoriale è certamente un punto a favore. “Fare sensazione è facile”, spiega Daniele Galli di Radio Amatrice, “difficile è contemperare informazioni corrette rimanendo la stella polare per la popolazione”.

Ma la comunicazione istituzionale e quella dei media non hanno imparato troppo, alla fine. Dopo il terremoto di Ischia, agosto 2017, due cantanti famosi come Gino Paoli e Renzo Arbore hanno puntato il dito contro la stampa allarmista, che fa danni alla popolazione e al turismo. Vero in parte, ma due morti e alcuni danni ci sono stati, quindi non si può neanche esagerare all’opposto. Il “linguaggio lirico sulla sensazione e l’emozione di certi cattivi scrittori mostra l’inadeguatezza dei media nella tragedia”, sostiene Roberto Cotroneo, giornalista. “Sono malati di opinionismo”.

 


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