Noia, ozio, attesa, lentezza, incertezza… non sono parole dal grande appeal. Anzi, ci inducono un certo fastidio al solo pensarle, una sensazione che però era sconosciuta ai nostri antenati. O almeno a molti di loro. Vale per tutte le cose del mondo: anche ciò che diamo per scontato non lo è mai per sempre. E la prova è che perfino alla naturalezza di sentimenti, sensazioni e occasioni, l’uomo è stato in grado di dare significati diversi che sono cambiati e cambieranno ancora col tempo…
La noia, come connotazione (ancora più) negativa dell’ozio, appartiene al Novecento. E si è consolidata fino a oggi, tanto che (dal dizionario google) quest’ultimo ha come primo significato un’“abituale e viziosa inerzia”, e la noia, addirittura un “senso di malessere interiore”.
Lungo la storia umana si è chiamata in modo diverso, però, e con caratteristiche positive o negative a seconda del periodo. Il suo nominativo più antico e famoso era l’otium dei latini. E il penultimo, prima che arrivasse la noia moderna, era lo struggente spleen dei Romantici. Hegel diceva che era “la condizione in cui si ricerca l’ignoto” e Leopardi “dove si coltiva l’infelicità da cui scaturisce la poesia”. Non che non abbia avuto altre connotazioni negative nel passato, come l’accidia medievale. O una sorta di mediazione tra le due, come fu la melancholia rinascimentale.
Alle sue origini, e in generale, la noia era quindi tutt’altro che un malessere. Al contrario era (ed è) il solo e unico stato possibile per dare spazio alla riflessione, la filosofia, l’arte. Creare e inventare. È con la società moderna che arriva la noia che conosciamo oggi, da quando Heidegger la definì “il tempo morto del sempre uguale”. Le giornate scandite in modo sempre più minuzioso da lavoro e consumo. Allo stesso tempo nemici giurati di lentezza e incertezza. A cui si è aggiunta una sempre più sofisticata tecnologia della comunicazione che sì, è utilissima per tanti aspetti, ma dall’altra parte sta distruggendo l’attesa, che ha in comune con la noia e le altre, la creatività della dilatazione del tempo.
Ma proprio in questi ultimi anni in cui tanta tecnologia ci si sta riversando addosso, qualcosa sta cambiando. Un pezzo di mondo, quello solitamente dalla parte dei soldi, ancora le stigmatizza: per “curare” la noia basta il telefonino; per l’ozio – quando significa solo “non fare niente” – ci sono i pacchetti vacanza dove puoi fare duemila cose al giorno; per la lentezza basta tenersi occupati con più lavoro, sport e hobby possibili; per l’incertezza, beh, questa forse è la più grave, bisogna conoscere ciò che si desidera per poter comprare meglio!
Per fortuna c’è anche l’altro pezzo di mondo. Quello, enorme, che vive della vita semplice di tutti i giorni, e si sta stufando di così tanto allontanamento dalla realtà delle cose e delle relazioni. Della carriera, dei soldi a palate, del lavoro fino a tarda notte a tutti i costi. Molta gente sta riscoprendo i propri desideri, sempre per comprare qualcosa alla fine, ma almeno sarà realmente ciò che desidera, e non ciò che gli altri, l’entità “società”, pretende, richiede o perlomeno spinge a fare. C’è gente che sta riscoprendo la noia e così si è messa a creare. Qualcosa di diverso, di nuovo, di svincolato dal resto.
Finalmente qualcosa di libero. Perché è proprio nella noia lenta del dolce far niente che nasce la prima incertezza – “forse non sto seguendo la vita che vorrei io” -, e da lì inizia tutto il resto e torniamo a essere felici. Semplicemente perché più vicini a noi stessi. Più veri, più umani. Andare contro gli stereotipi talvolta può essere davvero benefico. “L’unica cosa che l’Economia non ha ancora potuto comprare è la noia” è scritto sul fondale di uno spettacolo teatrale che si chiama Guerrilla. Siamo noi i padroni del nostro tempo.
Questo articolo cerca di riassumere il bellissimo Dibattito delle Idee tra uno scrittore, un filosofo e un giornalista, pubblicato questa settimana su La Lettura, l’inserto culturale della domenica del Corriere della Sera. Fino al 7 ottobre sarà ancora in edicola al costo di 0,50 cent.