Abbiamo parlato di come la nostalgia influenzi (più o meno) le nostre vite, dal semplice vecchio ricordo che ci fa tornare il sorriso, regalandoci sprazzi di buonumore, all’improntare il proprio stile seguendo la moda vintage. Ma la voglia di passato condiziona fin troppo spesso la creatività artistica, soprattutto nella musica e nel cinema, con l’abuso di cover o remake. Insomma rifacimenti.
La musica è forse la forma d’arte da cui si attinge più dal già fatto prima. Negli anni ’60 andavano adattamenti e traduzioni di pezzi inglesi (o anglofoni) di successo, come Sono bugiarda di Caterina Caselli o trent’anni dopo Gli spari sopra di Vasco Rossi, che avrà travisato il The party is over del brano Celebrate degli An Emotional Fish sentendolo alla radio. Ma c’era almeno un lavoro di scrittura dietro, spesso il testo aveva un senso completamente diverso dall’originale.
Altra cosa è la cover bella e confezionata. Tipo Britney Spears che canta I love rock ‘n’ roll degli Arrows già interpretata a sua volta da Joan Jett, Giusy Ferreri con Ma il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano o Phil Collins con True colors di Cyndi Lauper. Piacevoli, allungano di una traccia l’album, sono omaggi a canzoni di molti anni prima, ma sono sostanzialmente karaoke. Andrebbero bene per serate speciali in ricordo di artisti scomparsi – gli Arrows e Cyndi Lauper possono fare i dovuti scongiuri!
I cantanti famosi possono togliersi qualche sfizio, ma ci sono orde di sconosciuti con problemi di autostima che per un po’ di approvazione plasmano la loro carriera sulla bravura (o presunta tale) altrui, navigando in acque tranquille anziché rischiare il tutto per tutto con l’originalità di produzioni proprie. Sono le tribute e cover band, con le seconde un gradino sotto, sempre per il discorso che rifare canzoni di chi è ancora vivo ha ancora meno senso, tipo gli sfruttatissimi, loro malgrado, Ligabue e Jovanotti.
Il cinema è l’altro settore con frequente carenza di innovazione. C’era bisogno di un nuovo Psycho praticamente uguale al primo, ma del 1998, con la regia di Gus van Sant? Probabilmente no. Il successo di Scent of a woman, raro tra i remake, viene più da Al Pacino, ma anche da qualche differenza con l’originale Profumo di donna, di Dino Risi. Mentre, all’estremo opposto, passare da Harvey Keitel diretto da Abel Ferrara al monoespressivo Nicolas Cage non può certo far reggere il confronto a Il cattivo tenente.
Altri rifacimenti che invece abbiamo importato, al contrario di Profumo di donna, sono stati troppo ricalcati e quantomeno prematuri. Entrambi vengono dalla Francia e sono usciti a pochissima distanza dagli originali, appena due anni tra Giù al nord e Benvenuti al sud, tre fra il transalpino Cena tra amici e Il nome del figlio di Francesca Archibugi. Ma soprattutto nessuno spunto che caratterizzi e distingua i due film dalla prima versione.
Per quanto riguarda il teatro, il discorso è per forza di cose diverso. A differenza di film e canzoni, impressi su nastro e, andando avanti nel tempo, su supporto digitale, il teatro ha nell’esibizione dal vivo la sua essenza. Se non si rimettessero in scena opere greche, romane, shakespeariane, otto-novecentesche, giapponesi o di qualunque posto nel mondo, perderemmo un patrimonio infinito. Inoltre nel teatro non c’era un cast fisso come nel cinema, una stessa parte veniva interpretata regolarmente da più attori. Certo, possono essere più o meno bravi, ma non è che un personaggio si identificasse o cristallizzasse con un Robert De Niro, solo per fare un nome.
Nella pittura, scultura, letteratura invece non esistono rifacimenti, si chiamerebbero plagio, falso o copia. Diamo per scontata una doppia lettura parallela, per cui un film o una canzone si possano prendere come “ispirazione”, un libro o un quadro no, tranne la Gioconda coi baffi di Marcel Duchamp, che ha però il suo senso provocatorio dadaista. Nessuno ora si azzarda a riscrivere Anna Karenina, magari in chiave moderna, o qualunque altro classico, dando una nuova valenza ai personaggi, cambiando qualche dettaglio qua e là per renderlo “proprio”, più personale.
La letteratura restituisce alla parola cover il significato letterale di copertina – che almeno quella sia originale.