L’odio in rete è un fenomeno in preoccupante crescita, è ormai un fatto appurato. Secondo un’indagine dell’istituto Swg, i bersagli preferiti sono i migranti in generale, colpiti dal 32% dell’intolleranza, politici e omosessuali (30%), donne (27%), musulmani (15%) e minoranze varie, che racimolano un buon 21% (la somma è più di 100 perché ci si può scagliare anche su più “categorie” contemporaneamente).
Quasi l’80% dell’utenza, secondo un sondaggio pubblicato da Corriere.it, ritiene necessaria una segnalazione di piattaforme o siti in cui vengono pubblicati certi messaggi, per il 73% quegli stessi contenuti devono essere eliminati, mentre il 70% invoca la censura. Per poco meno del 30%, invece, non sono necessari interventi esterni, idea che sarebbe anche condivisibile ma solo in un mondo ideale dove tutti sanno come comportarsi.
A tal proposito, un folto gruppo di giornalisti, politici, insegnanti, manager e cosiddetti influencer – cioè personaggi per qualche motivo popolari, la cui opinione può addirittura influenzare qualcuno – ha recentemente lanciato la campagna Parole O_Stili, per combattere il linguaggio aggressivo che troppo spesso contraddistingue il dibattito on line. Per l’occasione è stato anche redatto un decalogo per una comunicazione appropriata. Alcuni punti sono interessanti, come il primo, “dico o scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”, e il 2,3 e 5 che fanno riflettere sulla scelta esatta delle parole.
Tutto molto bello, ma forse non ancora sufficiente. Innanzitutto è utopistico sperare che chi legga questi punti si convinca improvvisamente a smettere di odiare in direzioni sparse, altrimenti avrebbero già funzionato anche le trasmissioni sul femminicidio, tanto per fare un esempio. Non ci arrivava prima, non ci arriverà certo in due minuti. Bisogna scavare alle radici del problema. Punti focali sono la rabbia, la frustrazione repressa, e i confini labili tra virtuale e reale (come da prima regola del manifesto). Buttare fuori le scorie per l’insoddisfazione personale è una pratica antica. Senza arrivare alla preistoria, dove tanto ci si poteva aggredire liberamente, basti pensare al godimento dei romani nel vedere i gladiatori combattere nell’arena.
Siamo andati sulla Luna, su Marte, abbiamo una tecnologia inimmaginabile solo fino a pochi decenni fa, ma non abbiamo imparato a incanalare la rabbia in qualcosa di positivo, di soddisfacente a livello personale e magari addirittura per qualcun altro. Invece la sfoghiamo sui soliti capri espiatori, per ignoranza, nel senso letterale del termine. Si ha paura e di conseguenza si odia ciò che non si conosce.
La sola repressione nel lungo periodo non basta, non risolve il malessere perché non dà soluzioni, anzi fomenta ancora di più l’odio di chi sente minacciata la propria “libertà di espressione“. L’antidoto è comunicare, parlare, dialogare, sentire il maggior numero di storie. In alternativa, se si è pigri, leggere. Libri veri, non pseudositi di controinformazione tipo complottista.org o lecosechenontidirannomai.it, che aumentano paranoia e divisione. Così si eviterà di farsi imboccare frasi fatte, discriminatorie, avulse dall’incidenza che certi eventi hanno realmente sulla nostra vita: che siano gli sbarchi dalla Libia o il matrimonio omosessuale. Evoluzioni che richiedono mesi, più realisticamente anni.
Internet di per sé è neutrale, non gli si può imputare nulla. È come incolpare il coltello di un omicidio, l’oggetto è stato creato per tagliare, non per uccidere, anche se magari i suoi produttori non l’hanno specificato bene. Allo stesso modo ci siamo illusi che la rete sia un mezzo per esprimersi anche quando non si ha nulla da dire, che ogni opinione sia valida e interessante, ma bisogna anche dire che qualcuno lo ha fatto intendere. Altrimenti sulla homepage di facebook non ci sarebbe la domanda “a cosa stai pensando?”. Forse perché, parafrasando Romanzo Criminale, “se parlano tutti vuol dire che non parla nessuno”.
Il discorso è legato strettamente alla distinzione reale-virtuale. La gente non si è imbarbarita, anzi stiamo andando sempre più avanti nell’inclusione, nel capire che i diritti sono globali e non settoriali, senza distinzioni di sesso, orientamento sessuale, razza o religione. Il problema è che ora tutto quest’odio represso ha una nuova valvola di sfogo, la piazza virtuale, riflesso del reale ma con più risonanza. Traducendo, vent’anni si dicevano le stesse cose ma limitate alla cerchia del baretto. Potenzialmente ora ci sono migliaia, milioni di occhi puntati.
Chi ha più di venti anni sta vivendo una fase di transizione e ci vuole tempo per capire i periodi di cambiamento, sempre. È vero che internet c’è da molto, ma nemmeno troppi anni fa la connessione era a 56k, un surplus nella vita di tutti i giorni. E infatti all’inizio quel gioco chiamato Second life, in cui ti creavi un avatar per un’esistenza parallela, non attecchì. Adesso con l’esplosione di facebook, che comunque ha meno di dieci anni, si è ripreso quel concetto di profilo in rete idealizzato per la fuga dalla realtà.
Siamo ancora portati a pensare a una distinzione netta col virtuale, sorta di zona franca dove tutto è lecito. Motivo per cui i famosi “leoni da tastiera”, sempre pronti all’insulto, sono protetti dall’anonimato anche se commentano col loro vero nome. Tanto se Marco Rossi se la prende con “negri e zingari” o con Gianni Morandi, per chi legge è solo un nome e cognome che non dice niente.
Ma si è creato un paradosso. Il canale The Show ha caricato su youtube un esperimento sociale in cui il protagonista ha raccolto dai social i commenti più beceri e li ha ripetuti pari pari in faccia a sconosciuti per vederne le reazioni. Alcune “vittime” si sono sentite meno infastidite dal vivo, sia per la maggiore esposizione che si ha su internet che per la possibilità di spiegarsi e dialogare di persona.
Stranamente, tutto sembra avere un peso maggiore se detto in rete. È come se su internet tutto sia incorporeo, impersonale, ma al tempo stesso diventi “ufficiale”. Probabilmente fa parte dell’assestamento che stiamo vivendo, questione di farsi gli anticorpi contro quelli che il giornalista Enrico Mentana ha definito webeti.
Altro discorso per i “nativi digitali”, inseriti direttamente in un contesto iperconnesso, senza aver potuto vivere l’esperienza del “com’era prima”. Qui l’odio in rete può avere conseguenze diverse e sfociare, in un’età particolarmente delicata, nel cyberbullismo (continua…)