Gerusalemme, 3 marzo 2013, stadio Teddy Kollek. Al 48′ Avi Rikan fa un passaggio filtrante per Zaur Sadayev. Stop di petto, tiro, gol. Beitar Gerusalemme 1, Maccabi Netanya 0. La maggior parte del pubblico esulta, come normale, mentre decine, centinaia di tifosi abbandonano gli spalti, qualcuno insulta l’ex ministro degli Esteri di Israele Avigdor Lieberman. È il primo gol di un musulmano per il Beitar e non a tutti sta bene.
Il Beitar ha una storia particolare, viene fondato nel 1936 come espressione del nazionalismo israeliano un decennio prima della nascita di un vero e proprio Stato e l’ideologia si radica nel dna, fino ai giorni nostri. La squadra è sostenuta da esponenti di spicco della politica come appunto Lieberman e il premier Benjamin Netanyahu, che pure è nato a Tel Aviv e non nella capitale. I valori originari, che potevano anche avere senso nel contesto di 80 anni fa, ora sono stati fatti propri dalla destra popolare, che controlla l’ala più calda ed estremista della tifoseria.
Gerusalemme è una città simbolo per le tre religioni monoteiste, gli ebrei vi costruirono il primo grande Tempio, per i cristiani c’è il Santo Sepolcro e per i musulmani il santuario la Cupola della Roccia, da dove Maometto iniziò l’ascesa al paradiso. Nonostante in ebraico il nome Gerusalemme voglia dire “città della pace”, la convivenza non è facile. Di riflesso la squadra di calcio, il Beitar, ne risente. È stata l’unica compagine del campionato israeliano a non aver messo sotto contratto nessun arabo o musulmano fino al 2013.
La dirigenza non l’ha mai ammesso, ma dietro alla decisione c’è sempre stata “La Familia”, la frangia più razzista e intollerante della tifoseria del Beitar. Poche migliaia di individui fanno più rumore di centinaia di migliaia di sostenitori e di fatto li tengono in ostaggio, insieme alla società calcistica. Andare a giocare al Teddy Stadium non è mai stato facile per nessuno, il clima intimidatorio è pesante, così come i cori che incitano alla guerra contro l’islam.
Nessun arabo è esente, nemmeno Abbas Suan, che con la maglia dell’Israele è diventato un idolo per tutti. Nel 2005 segna un gol all’Irlanda che avvicina la sua Nazionale ai mondiali in Germania – l’unica partecipazione è nel 1970 in Messico. Poi si qualificherà la Svizzera, per la differenza reti, ma Suan gode comunque di un’ottima reputazione in patria. Non a Gerusalemme, non al Teddy Stadium, che oltre ai soliti cori gli tributa l’eloquente striscione “non ci rappresenti”.
“Mi vergogno quando vado giocare là, tutto il tempo fanno cori contro Maometto”, dichiara Suan, che poi denuncia un episodio capitatogli. “Una volta mi hanno distrutto la macchina, se fossi stato lì vicino mentre stava succedendo, sarebbe finita male”. Suan stava per diventare il primo musulmano del Beitar, per una questione di immagine, ma le pressioni de La Familia hanno fatto saltare la trattativa. Uguale con Ndala Ibrahim, che addirittura è nigeriano e poco ha a che fare con la questione israelo-palestinese.
Nonostante le smentite di Itzik Kornfein, portiere del Beitar Gerusalemme tra il 1995 e il 2007 e ora general manager, La Familia decide. Guy Israeli, uno dei capi tifoseria, lo dice davanti alle telecamere senza problemi, “la squadra è nostra, decidiamo noi. Sono orgoglioso che siamo gli unici a non aver mai avuto arabi e sarà così per quelli che verranno dopo. Siamo speciali”. Poi prova a ribaltare la prospettiva, “dite piuttosto che abbiamo solo giocatori ebrei”.
“La Familia riflette una tendenza fra i giovani ultraortodossi”, spiega Amno Be’eri Sulitzeanu, attivista in favore della distensione, “cioè l’odio verso chi non è come te, come il tuo gruppo. È pericolosa perché legittima la segregazione. La società israeliana è fragile e l’atmosfera esplosiva”. La violenza non è limitata al Teddy Stadium, una volta dopo una partita i tifosi sono andati al centro commerciale lì di fronte e hanno sputato a due donne velate. Ne è scaturito un parapiglia, la polizia ha fermato 16 persone ma li ha rilasciati.
Multe e punti di penalizzazione non hanno avuto effetto, né la crisi finanziaria e di risultati del Beitar Gerusalemme. Sponsor in fuga, investitori in fuga e i sei scudetti tra il 1987 e il 2008 sembrano di un’altra era. Nel 2013 la svolta. A fine gennaio arrivano due ceceni, Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, per Kornfein “vale più dei risultati sportivi”. È così, ma in senso opposto, anche per La Familia, che reagisce con minacce di morte e atti di vandalismo contro la sede della società. All’allenatore arriva un messaggio, “se gioca il numero 13 (Sadayev, ndr) succederanno brutte cose, la scelta è tua”.
Si arriva al fatidico 3 marzo, al gol di Sadayev. Lieberman esulta e La Familia se la prende anche con lui, “dove sono i tuoi principi? Perché li sostieni? Tutto è rovinato in un secondo”. Compare lo striscione “Beitar per sempre puro”, come se i riferimenti alla presunta purezza della razza non risuonino allarmanti. Dopo la partita la rabbia si sfoga con delle ronde a caccia di musulmani. I due ceceni se ne andranno a fine stagione, una presenza appena per Kadiyev, sette e quell’unico gol per Sadayev.
Non è uno di quei film in cui il razzismo e il pregiudizio vengono sconfitti in tempi relativamente brevi, pure se a fatica, magari proprio per un successo sportivo. La situazione è molto più complessa perché fosse bastato così poco e le voci dei tifosi de La Familia non lasciano spazio a interpretazioni. “Un giocatore che si china a pregare con indosso la maglia con il simbolo della menorah ci ferisce”, afferma Eden, che invece non ha nulla contro “i cristiani che fanno il segno della croce”. “Sappiamo che non tutti i giocatori arabi sono terroristi (sic!), ma non li voglio nella mia squadra”, dice Oshri. “Quando parlo con i miei amici stranieri non capiscono la sensazione di paura e ansia quando un arabo sale sul bus con l’impermeabile nero. Siamo una società danneggiata, questo è chiaro”.
Molto chiaro, specie quando si vedono video dei tifosi del Beitar insegnare ai bambini cori come “morte agli arabi”. Ci vorrà più di un cambio generazionale perché Gerusalemme diventi città di pace tenendo fede al proprio nome.