In Kosovo nel 1998 durante il conflitto tra serbi e albanesi. La storia del fotoreporter Riccardo Venturi su ciò che non bisogna fare quando l’istinto, a cui si deve dare sempre retta, inizialmente può sembrare solo uno stereotipo di “fumo”. Si fidò di un uomo sul quale aveva pensato immediatamente, appena visto in faccia: “io con questo non ci voglio avere nulla a che fare”…
La storia di Riccardo Venturi è quella che chiude lo spettacolo di Oltreconfine sul “fantasma di fumo”. Due volte vincitore al World Press Photo (nel 1997 con una serie sulla guerra in Afghanistan, e nel 2011 un primo premio con una Haiti post terremoto), essendo un fotografo, ha parlato del“l’immagine del fantasma di fumo”.
A proposito di Haiti e riti magici, non resiste a quello che ha ascoltato fino a ora, dichiarando subito: “lì mi feci fare un rito voodoo e devo dire che ha funzionato in maniera scandalosa”. Non contento, “in Africa feci anche un rito marabu” che sarebbe il santone opposto allo stregone che utilizza amuleti e feticci animali per allontanare il male. “Il calcio africano fa ricorso abituale alle pratiche magiche per destabilizzare il nemico”. Mentre “nell’islam e nell’ebraismo si trovano usanze assai simili che hanno come oggetto la venerazione dell’acqua (fontane o sorgenti) che sgorga per la bontà di questo sant’uomo che è il marabu”. Credenze talmente radicate che aiutano a spiegare anche perché molti migranti non si fidino delle forze dell’ordine europee. Non solo a causa della possibile corruzione e degli atteggiamenti sprezzanti a cui sono di solito abituati, ma temono inoltre che non capiranno e rispetteranno i loro credo”. I trafficanti lo sanno e sfruttano ogni credenza: “migliaia di donne e ragazze sottostanno a potenti riti voodoo che le obbligano a obbedire alle regole stabilite da loro e a guadagnare abbastanza denaro per pagare i ‘debiti’”.
“Il problema del fotografo è lo stesso dell’antropologo: è un testimone che modifica la realtà”, sempre e inevitabilmente, per quanto cerchi di non farlo. E qui inizia la sua storia, tra il farsi coinvolgere e il tentare di rimanere “invisibile”.
“Una storia di errori, che ho commesso uno dopo l’altro”.
“Nel 1998 ero in Kosovo, durante il conflitto tra serbi e albanesi che era definito ‘a bassa tensione’. Avevo 32 anni, ed ero in una zona di guerra per la prima volta e con pochi soldi. Ero ospite da una famiglia albanese a Pristina. Il primo errore che commisi fu accettare la proposta di uno di loro che voleva farmi da accompagnatore”. Si dice che la prima impressione su qualcosa può non essere sempre vera, ma da allora imparò a seguirla sempre invece, perché rappresenta l’istinto, e quell’istinto gli aveva detto che: “quell’uomo già non mi piaceva. Mi disse che poteva condurmi in un luogo non meglio identificato e che sapeva come parlare coi ribelli. In più mi sembrava fatto di eroina. Ma io che faccio? Vado lo stesso. Secondo, terzo e quarto errore tutti insieme”.
“La mattina si presenta che era già fatto, gli dico di non toccare più la droga, mi serviva lucido in Kosovo. Arriviamo nel posto, cerchiamo il comandante dei ribelli. Nel mentre vedo dei miliziani a riposo su delle tombe e cerco di fare delle foto. Quello sparisce e torna in macchina correndo: dobbiamo scappare. Ma già stanno arrivando dei militari che lo inseguono e se la prendono con questo, iniziando a picchiarlo. Io faccio il quinto errore: chiedo ‘che succede?’. Come risposta ricevo un pugno in faccia e solo lì capisco la somma degli errori che avevo fatto. Il miliziano a quel punto spara un intero caricatore non su di me, per fortuna, ma sulla mia macchina fotografica. Persi tutte le foto, ma la macchina l’ho conservata perché uno dei proiettili è ancora dentro l’obiettivo e incredibilmente non ha spaccato l’ultima lente! Lo si può vedere attraverso…”
“La mia storia vuole essere testimonianza di quello che può succedere” (e poteva andare molto peggio) “se non si dà retta al fantasma di fumo”, quando non è la solita illusione, ma è piuttosto il più che concreto istinto di sopravvivenza che ognuno di noi possiede. Può sembrare irrazionale, ma se si è pensato qualcosa – non andare, non lo fare, non ti fidare, ma anche il contrario! – se insomma qualcosa è venuto a galla nella coscienza, perché mai non dargli retta? Facendo il processo contrario quando non è necessario? Di quello che si fida solo dei fatti, che sono invece gli unici che possono salvarci da quei fantasmi di fumo veramente privi di fondamento. L’istinto è più concreto di quanto si possa pensare perché non è vero che non valuta i “fatti”, solo hanno a che fare con i “sensi”, che solitamente è quello che vedo e sento, talvolta tocco, ma per i più fini c’è anche l’odorato. Magari anche il gusto. Di fatto, sono informazioni.
Il fantasma di fumo è una gran bella gatta da pelare, insomma. Nasce da stereotipi che si ingigantiscono col passaparola e possono creare seri problemi – guerre, cambi di stato, tragedie economiche – ma il fantasma di fumo in fondo è ogni aspetto della vita che rimane insondabile, ma agisce di continuo, sotto la coscienza. L’istinto è uno di questi, il più sano, perché almeno viene da noi e non da quello che gli altri ci vogliono far credere.
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