“Avevo 19 anni quando nel 1960 mi sono unita al Nag (Nonviolent action group) di Arlington, Virginia”. Joan Mulholland, oggi quasi settantaseienne, ricorda in un’intervista al Washington Post il passato da attivista tra i Freedom Riders, che percorrevano in autobus gli Stati Uniti per combattere la segregazione dei neri e altre violazioni dei diritti civili.
A passare alla Storia, per forza di cose, sono i leader o personaggi che fanno i gesti più eclatanti. Così ad esempio ci ricordiamo Lenin e non tutti gli altri rivoluzionari sovietici, Garibaldi e non il nome dei mille (che richiederebbero grande spazio nella memoria), Castro e Che Guevara. Oppure Mohammed Bouazizi, l’ambulante di Tunisi che dandosi fuoco è diventato simbolo delle rivolte contro Ben Ali. Ugualmente nelle lotte antirazziste americane degli anni ’60 vengono in mente prima di tutti Malcolm X, Martin Luther King, magari Jesse Jackson e Louis Farrakhan, più, ovviamente, Rosa Parks.
Così una Joan Mulholland può non dire molto alla maggioranza, ma è anche e soprattutto per gente come lei che queste lotte hanno avuto successo. Prima di tutto, perché è una bianca originaria degli stati del sud, in linea di massima più conservatori rispetto al nord. Joan è stata anche la prima caucasoide a far parte della Delta Sigma Theta, confraternita al femminile allora appannaggio delle nere. “Ho iniziato a fare domanda ai Negro College, Tougaloo accettava i bianchi e sono entrata”. Dettagli che le attiravano le attenzioni del Ku Klux Klan.
“Mi sono ‘svegliata’ alle superiori”, ricorda Joan Mulholland al Washington Post. “Mia madre veniva dalla Georgia rurale ed è stata segregazionista fino alla morte, nel 2000” (quando si dice che alla fine la mela non cade lontano dall’albero). “Mio padre invece non era segregazionista, ma pensava che bisognasse cambiare il sistema dall’interno. Concordavano nel non concordare il mio attivismo”. I Freedom Riders invece rischiavano, eccome. E infatti i membri del Congress of Racial Equality incontrati a New Orleans avevano avvertito di “prepararsi psicologicamente”, agli attacchi razzisti e della polizia.
Come puntualmente avviene in Mississippi: arresto nel braccio della morte, quello degli assassini, insieme ad altri Freedom Riders, tutto dopo essere stati pesantemente aggrediti dal KKK. Tralasciando i dettagli, i racconti parlano di situazioni umilianti e degradanti. Ma non fanno da deterrente, anzi aumentano la voglia di fare la differenza per migliorare la società. Aumentano i sit-in, i gesti dimostrativi in ristoranti, all’università appunto, nello spingere i neri a iscriversi alle liste elettorali. E aumenta l’esposizione all’odio del KKK, organizzazione che non si farà problemi a uccidere tre attivisti a Neshoba, Mississippi. Ma la ventenne Joan Mulholland non è tipa da farsi intimidire, sicura di stare nel giusto. Minacce, aggressioni, persino esami psichiatrici dalle autorità, ma il registro non cambia, perché non può cambiare.
È stata la chiesa presbiteriana frequentata ad insegnarle l’uguaglianza “agli occhi di Dio”, anche se il ministro della parrocchia raccomandava di mantenere il segreto, per evitare ritorsioni. “Il momento in cui ero diventata pronta a fare qualcosa è giunto alla Duke University, nel 1960”. Le proteste degli studenti neri arrivano anche in North Carolina, dove si organizzano sit-in e dibattiti. “Da religiosa del sud sentivo che avremmo dovuto fare qualcosa per rendere il sud migliore e sbarazzarci di questo demone. Quando penso al ruolo dei Freedom Riders, penso che forse le cose sarebbero cambiate ugualmente. Ma il fatto che fossi bianca e del sud ha aiutato, perché anche i bianchi segregazionisti hanno visto altri bianchi prendere posizione per il cambiamento”.
Ecco perché a fianco dei Martin Luther King, Malcolm X e Rosa Parks c’è spazio, solo appena più in disparte, per questa “sudista” bianca, ricordata in numerosi libri e nel documentario An ordinary hero, pluripremiata per l’impegno civile – ultimamente anche dall’ex presidente Usa Barack Obama – audace nell’affrontare spavalda il sistema legale e quello “parallelo” del KKK, quando avrebbe potuto trascorrere un’esistenza tranquilla – come avremmo fatto quasi tutti al suo posto – senza per questo essere biasimata. Semplicemente perché “nessuno è libero se non lo sono tutti”. Sembra facile, ma solo se a dirlo è Joan Mulholland.