La storia del demone tibetano Dorje Shugden, (raccontata dall’editor di Informant Antonio Talia durante un live show Oltreconfine), è esemplificativa del “fantasma di fumo quando diventa leva politica“, un po’ come nel caso della ex presidente della Corea del Sud Park Geun-Hye. Parliamo di un’”entità divina guerriera” adorata dai “pacifici” buddisti (almeno secondo stereotipo). Dopo aver seguito il suo culto per lungo tempo il Dalai Lama l’ha scomunicato creando vaste proteste tra i fedeli, una (altra) scissione interna alla religione e uno scontro politico con la Cina…
Dorje Shugden è un’entità spirituale del Buddismo tibetano, al centro delle pratiche di una delle scuole più antiche, la Gelug o “scuola dei berretti gialli”. Gli è attribuito un mantra (formula meditativa) che si traduce (in parte): «Gran Re Violento, uccidi tutti i nemici delle cinque famiglie [dei Buddha]»…
Dorje Shugden è al centro di un dibattito, se non vero e proprio scontro teologico che, “da una parte ha chi lo ritiene una divinità tutelare, e dall’altra chi lo riconosce come un demone dai temibili poteri mondani, tra cui lo stesso Dalai Lama. In particolare chi lo ritiene divino, lo indica come un’emanazione di Manjusri, Buddha della Consapevolezza, il cui scopo è di rimuovere tutti gli ostacoli sia interiori che esteriori che impediscono ai praticanti di raggiungere l’Illuminazione”, la propria crescita spirituale e divina, “guidandoli attraverso il sentiero più veloce” (Wikipedia).
“Ormai ci sono sempre più proteste”, dice Talia. Tenzin Gyatso, l’attuale XIV Dalai Lama che ha 81 anni, dopo la scomunica è stato “accusato di ipocrisia perché non permette la libertà di culto” che professa, e magari lo adora ancora in segreto. “Anche i monasteri lo stanno attaccando”.
Ma la storia del demone (e soprattutto di come sia stato “utilizzato”) è più che antica: la sua pratica inizia nel 1600 con il V Dalai Lama, trasformandosi in vera e propria manipolazione politica già dal 1800.
Robert Thurman, monaco buddista americano nonché padre della più nota Uma, sottolinea che “le attività legate a Shugden sono finanziate dal Dipartimento del Fronte Unito del Lavoro, agenzia del governo (comunista) cinese, come parte della sua strategia” (politica) di disgregazione del Tibet, mirata soprattutto contro chi cerca di tenerlo unito, il Dalai Lama per primo.
Ma partiamo dall’inizio. Il V Dalai Lama, esponente della scuola dei Gelug, nel 1642 fu il primo ad avere sia il potere politico che quello religioso in un’appena unificato Tibet. Per questo decise di mantenere un atteggiamento flessibile e inclusivo che lo portò a coltivare un interesse anche per la scuola Nyingmapa. Ma venne definito dai più ortodossi Gelug, “un eretico, in quanto praticava Tantra” – l’insieme dei testi, insegnamenti spirituali e tradizioni esoteriche – “che includevano piaceri quali il bere bevande alcoliche e i rapporti sessuali”.
Anni dopo, “nel 1655 un autorevole lama dei Gelug fu trovato morto in circostanze mai chiarite entro le mura della stessa università monastica. Molti sospettarono che fosse vittima di un assassinio politico orchestrato dai fedeli del V Dalai Lama, e da allora i Berretti Gialli più conservatori ritennero che il suo spirito si fosse reincarnato in Dorje Shugden” che avrebbe così preservato la loro ortodossia, maledicendo e perseguitando fino alla morte “chiunque incoraggiasse il minimo connubio con altri sistemi scolastici”.
“Nei successivi due secoli la scuola Gelug consolidò così la propria supremazia, divenendo il sistema largamente favorito dagli aristocratici. Il culto di Dorje Shugden si diffuse di pari passo, raggiungendo anche Pechino. Il penultimo Dalai Lama si ritrovò in questo modo circondato da monaci intransigenti che di fatto frenavano ogni suo sforzo di apertura e modernizzazione del Tibet nel timore che la dottrina venisse inquinata. Nel 1933 morì lasciando un’inquietante profezia che parlava di molte atroci sofferenze a danno dell’intero Tibet”.
Non aveva tutti i torti, visto che nel 1950, per ordine del Presidente Mao, l’esercito cinese conquistò il Tibet, e l’attuale XIV Dalai Lama, che all’epoca aveva solo 15 anni, fu subito incoronato sovrano per rispondere alla crisi e protetto nel Monastero di Dunkhar, lungo il confine con l’India. Qui “studiò con pazienza la migliore risposta all’invasione straniera fino al giorno in cui gli fu presentato un anziano monaco noto per essere il medium dell’oracolo di Dorje Shugden”.
“Durante la sua trance, l’oracolo diede risposte molto precise, tanto da suscitare l’attenzione del giovane Dalai Lama. Da quel momento si accostò al culto facendo inserire Dorje Shugden tra le divinità ufficialmente venerate. In gran parte del Tibet apparvero statue e thangka (stendardi) dello spirito dalla forma terrifica, armato di spada su sfondi di fuoco e sangue, e si tennero sfarzose cerimonie atte a richiederne potere, ricchezza e servigi immediati”.
Ma durante gli anni ‘70 qualcosa iniziò a cambiare. Nel 1976 venne pubblicato il Libro Giallo, che conteneva storie riguardanti gli atti irosi di Dorje Shugden contro i monaci Gelug che avessero praticato altri insegnamenti. Nel frattempo però il XIV Dalai Lama stava cambiando opinione. Frequenti sogni infausti su questo spirito, presto supportati da presagi inquietanti e concreti (su tutti le continue pressioni della Cina) lo spinsero, a partire dal 1978, a mettere al bando la pratica di Dorje Shugden, proclamandola fondamentalista. Ammise “di aver sbagliato a non seguire l’esempio inclusivo dei suoi predecessori, e che la devozione a tale demone aveva portato a gravi conseguenze per tutti i tibetani”. Nel 1996 ribadisce: “se considerate la causa del Tibet, se accettate la leadership del Dalai Lama, se sostenete la mia parte nel governo tibetano esiliato in India, la vostra posizione su questo non dovrebbe essere diversa dalla mia”.
Contro il proclama si levò ovviamente la Cina, secondo cui tale proibizione rappresentava una grave violazione dei diritti umani (non potendo dichiarare l’intenzione di frammentazione e isolamento del Tibet). Ma da quel momento in poi il XIV Dalai Lama continuò a sostenere che Dorje Shugden era motivo di degenerazione del Buddismo tibetano, puntando a renderlo come “un semplice culto di uno spirito, negando quella possibilità di indagine filosofica e analisi critica da sempre contemplate in Tibet, oltre che la possibilità di instaurare la coesione delle scuole buddiste”. Ma a quel punto il culto si era diffuso e oggi molti non rispettano il precetto del Dalai Lama. L’opposizione si è concentrata soprattutto intorno a due monaci a capo degli unici due monasteri europei di Dorje Shugden, a Milano e Londra.
Anche l’influenza cinese contro il Dalai Lama non si è fermata, anzi è in corso “un ingente finanziamento del culto, che intanto fiorisce in ogni luogo in cui il buddismo tibetano si è diffuso, dall’India alla Cina, dal Nepal alla Mongolia e anche in Europa e America. Attualmente anche i servizi segreti indiani hanno fatto associazioni tra simpatizzanti del demone e il Partito Comunista di Cina, supportati addirittura da una forza di agenti segreti cinesi, fatto che ha contributo ad animare le già forti tensioni tra Cina e Tibet e Cina e India”.
In questo caos secolare l’unica certezza è che Dorje Shugden è solo “una parte genuina del buddismo tibetano, troppo spesso ignota agli occidentali, fatta di oracoli, riti propiziatori e divinità guerriere“. Poi c’è lo scontro teologico, se il dharma (l’insieme delle credenze religiose) di corrente Gelug, basato sul principio del vuoto, debba unirsi a quello della consapevolezza delle dottrine Nyingma (col “rischio” di diventare troppo induista). Poi c’è lo scontro politico, attuato da entrambi i lati, sia dal Dalai Lama e i suoi sostenitori, sia dai suoi detrattori, tra cui la Cina, tra libertà di culto e unione, tra imposizioni e disgregazione. Dov’è la verità? Tra la realtà e i fantasmi di fumo.
Come ha affermato il lama del Monastero svizzero Rabten Choeling: «In questo mondo non esistono luoghi paradisiaci. In passato il nostro popolo è stato quasi sempre solo lodato. Tuttavia troppe lodi prive di senso critico non giovano a nessuno. In realtà in Tibet le cose vanno come dalle altre parti». Già esserne consapevoli è un passo avanti in fondo.
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